Politica
15 settembre, 2025Le spese per la Difesa, su pressione americana, aumentano di altri 4,5 miliardi di euro (il totale sfiora i 40), pari a due punti di taglio Irpef. Che diventa una chimera. Tra i mugugni e gli alt di Giorgetti
Il colore di quest’autunno, e non v’è dubbio, è il “canna di fucile”. Che sta bene su tutto e sta bene per inquadrare questa nuova variabile – «imponderabile e detestabile» per citare Giancarlo Giorgetti – che s’aggira minacciosa attorno alla legge di Bilancio: le armi, sempre le armi, fortissimamente le armi. Il ministro dell’Economia ne parla spesso con un malcelato fastidio, anzi il fastidio non lo vuole proprio celare. I parlamentari si dimenano alla ricerca della proposta più efficace e brillante, politicamente redditizia, da inserire nella legge di Bilancio in un periodo di elezioni regionali, trampolino per le Amministrative di primavera e, laggiù in fondo, s’intravedono già le Politiche. Lungimiranti. Invece il ministro Giorgetti, more solito, deve mantenere le finanze in equilibrio mentre i partiti spingono di qua, le risse commerciali spingono di là e, sopra ogni altra cosa, va ricavato uno spazio per le armi, per l’acquisto di armi, diciamo in generale per la Difesa. Il fastidio è comprensibile.
Questa legge di Bilancio è in piena gestazione, manca oltre un mese al disvelamento in Parlamento, ma alcuni rimpianti (fastidi, meglio) sono già chiari al ministero del Tesoro. Per esempio, spiegano fonti di governo, la spesa per la Difesa potrebbe aumentare di 4,5 miliardi di euro in confronto allo scorso anno, uno 0,2 per cento in termini di Prodotto interno lordo, cioè l’equivalente di 2 punti di taglio alle tasse per le persone fisiche (Irpef). Giorgetti lo fa intendere a suo modo: «La spesa in armi implica una maggiore pressione sui conti pubblici che dobbiamo valutare. Speriamo che non comprometta i nostri obiettivi in termini di politica economica e di politica in senso lato». Espliciti: non possiamo avere l’Italia più armata e meno tassata. I 4,5 miliardi di euro confluiranno in gran parte alla Difesa, i documenti ufficiali le riservano 34 miliardi già nel 2025.
Il ministro ha precisato che la legge di Bilancio non sarà una manovra correttiva, niente tagli non previsti; le entrate fiscali sono eccellenti; il Prodotto interno lordo, seppur preso a sberle coi dazi, è avvinghiato a uno 0,6 per cento; l’avanzo primario è di quasi mezzo punto di Pil (senza gli interessi sul debito), epperò qualsiasi progetto politico sarà condizionato o sacrificato in nome del riarmo. Il fastidio di Giorgetti è doppio perché l’improvviso bisogno di missili e di siluri, di droni e di fregate – la corsa è ormai partita, sospinta dalle pressioni dell’amministrazione americana di Donald Trump – ha colto impreparata l’industria bellica italiana: l’Italia partecipa alla crescita del settore oppure avrà unicamente il compito di ingrassare il fatturato di aziende americane e surrogate? Le imprese controllate dallo Stato ne dovrebbero approfittare, altrimenti – e lo ricorda ancora Giorgetti – tutto si traduce «in aggravio di finanza pubblica senza ritorno di produzione e occupati in Italia».
Il sospetto che l’Europa sia finita come i capponi di Renzo diventa una certezza rileggendosi le recenti dichiarazioni di Mark Rutte, ex primo ministro olandese, dunque europeo, attuale segretario generale della Nato: «Permettetemi di farvi tre esempi del perché penso che il presidente Trump stia facendo esattamente la cosa giusta. Pensate davvero che, se non fosse stato eletto presidente degli Stati Uniti, Italia, Canada, Spagna, Slovenia, Belgio e Lussemburgo si sarebbero impegnati a raggiungere il 2 cento quest’anno? Pensate davvero che l’intera Nato si sarebbe impegnata a raggiungere il 5 per cento, incluso il 3,5 per cento della spesa per la Difesa di base al vertice Nato dell’Aia? Credo che questo sia uno dei suoi più grandi successi in politica estera». Proprio per dimostrare questi «successi», in un’operazione che in altri tempi si sarebbe chiamata di propaganda, peraltro una propaganda con insopportabili movenze adulatorie, che neanche Steve Bannon delle origini, l’Alleanza Atlantica un paio di settimane fa, in piena estate, ha diffuso un suo resoconto sulle spese in armi con la preoccupazione di certificare che Trump aveva ragione, che Trump ha stravinto gli scettici, che Trump ha ridestato (svaligiato, no?) la decrepita Europa: insomma, quest’anno i membri europei Nato hanno destinato il 2 per cento del Pil per la Difesa. I grafici di Rutte riportano il balzo in Europa e attribuiscono all’Italia il 2,01 per cento, quel che basta per sopravanzare in classifica Germania, Portogallo, Spagna. In un decennio la titubante Italia è passata dall’1,13 con il governo di Matteo Renzi al 2 soverchiante con il governo di Giorgia Meloni. In valore assoluto, in moneta sonante, il salto è da 32,7 miliardi di euro a 45,315 miliardi. Il ministero dell’Economia, se questa è la domanda, la più scontata, non ha recuperato quasi 13 miliardi in un anno, semplicemente la Ragioneria ha ricalcolato gli stanziamenti che formano il bilancio Nato. Questo ha permesso di far crollare la voce personale dal 58 al 42 per cento, nonostante le unità siano pressoché ferme a 170mila.
Rutte ha ottenuto i suoi successi per poter santificare i successi di Trump e nel prossimo futuro, più della Ragioneria, servirà una caterva di miliardi. La Nato ha fissato il 3,5 per cento del Pil entro il 2035, non ci sono traguardi intermedi e la classe dirigente di oggi sarà in pensione, ma il 3,5 per cento, e va tenuto a mente, vale circa 100 miliardi di euro per l’Italia. Non spaventa la cifra distopica in sé, spaventa il contesto: oggi è più facile trovare finanziamenti per le armi che per ridurre le tasse o per investire su istruzione, salute, ambiente. Lo stesso governo, recalcitrante, ha aderito allo strumento europeo Safe per il debito comune da utilizzare per comprare armi. Come scritto già da L’Espresso su elaborazione dell’Osservatorio Milex, nella legislatura in corso, il governo ha avviato programmi militari pluriennali per un totale di 42 miliardi di euro. Per quanto siano pluriennali, presto o tardi sarà il momento di pagare; sin da ora un miliardo di euro è assegnato a questa posta. Tutto cospira affinché il denaro europeo, perlopiù in prestito, a volte comprimendo la spesa sociale, vada a rimpinguare le casse dell’industria bellica americana. È il desiderio di Trump. È l’agenda di Rutte. Secondo i calcoli del Kiel institute for the world economy, il prestigioso istituto tedesco di analisi e di ricerca, l’Europa ha «allocato una maggiore quantità di risorse militari per l’Ucraina rispetto agli Stati Uniti», conferma il professor Taro Nishikawa, fra i responsabili dello studio permanente sugli aiuti all’Ucraina.
Il sorpasso è avvenuto per un semplice motivo: dalla metà di gennaio, appena insediato Trump, l’amministrazione americana ha smesso di foraggiare la resistenza ucraina e, di conseguenza, è subentrata in fretta l’Europa per evitare una rapida capitolazione dell’esercito di Kiev (che, comunque, ha sofferto e soffre tantissimo nel Donbass). Il Kiel Institute segnala che l’Europa non si muove compatta a supporto dell’Ucraina e, per l’appunto, che la Spagna e l’Italia hanno un andamento più lento del passato, poche decine di milioni di euro quest’anno. Nel complesso, il Kiel Institute attribuisce a Roma un esborso di 2,61 miliardi di euro in due anni e mezzo di guerra, di cui 0,41 miliardi di natura finanziaria, 0,50 miliardi per assistenza umanitaria, 1,7 miliardi di armi.
Quest’ultimo parametro è parecchio esiguo, probabilmente sottostimato, perché l’Italia spedisce materiale bellico all’Ucraina attraverso pacchetti coperti dal segreto di Stato. Poiché si tratta prevalentemente di “cessione” e nei primi mesi la Difesa ha vuotato le rimesse, è arduo fissare un valore universale. Anche se, compresi gli oneri logistici, fra roba usata e fresca, l’Italia ha contribuito alla guerra di Kiev con almeno 3 miliardi di euro. Le pretese della Nato e quelle dell’Europa – anche l’Unione ha accresciuto la sua voce Difesa – non si giustificano con il soccorso a Kiev né con il pericolo di Mosca, ma con il lungo (e non gratuito) addio degli Stati Uniti agli amici europei. L’Europa si sostituisce militarmente all’America di Trump e, nel frattempo, la rifocilla con commesse miliardarie. Un bell’affare per l’amica Giorgia e il suo governo. L’autunno ci porterà più armi e non meno tasse. Provate a dire a Giorgetti di nascondere il suo fastidio.
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