Politica
3 settembre, 2025Articoli correlati
Il governo Meloni è sempre pronto a sostenere il riarmo, ma non è interessato a dare più risorse all'istruzione, e lo dimostrano gli ultimi dati di Bilancio. Anzi, come annunciato dalla stessa premier all'evento ciellino di Rimini, il suo esecutivo vuole trovare più fondi per le scuole non statali che, difatti, in una dozzina di anni hanno ottenuto il quadruplo dei fondi a loro disposizione
Non è per nulla disfattismo e, per favore, non tacciateci di populismo. Così è (come appare): l’Italia investe più in armi che in scuola, recupera più soldi per le armi che per la scuola, sente più il bisogno di armi che di scuola. È un fatto acclarato, confermato da grafici, numeri, tendenze. Lo si può contestare, sminuzzare, abbellire, ma non lo si può smentire.
Quest’anno come lo scorso e, si presume, come gli altri a venire, ai parlamentari della Commissione cultura, istruzione e scienza – luoghi che dovrebbero rappresentare il nucleo dell’attività politica e invece sono degradati a periferia della stessa – verrà sottoposto il rendiconto 2024 e l’assestamento 2025 del ministero dell’Istruzione e del Merito retto dal prof. leghista Giuseppe Valditara. Quest’anno come lo scorso e, si presume, come gli altri a venire, il diagramma cartesiano che indica la spesa per la scuola rispetto al totale della spesa pubblica non farà trasecolare la maggioranza né indignare più del giusto l’opposizione e né, soprattutto, stupirà gli astanti, assuefatti: 6,56 per cento nel 2021 con il governo Draghi; 6,74 nel 2022 in condivisione fra i governi Draghi e Meloni con più mesi in capo al primo; 6,66 e 6,36 nell’ultimo biennio esclusivamente di marca governo Meloni; 6,2 stimato per il 2025 non ancora concluso. In vil denaro, considerando il rimbalzo del prodotto interno lordo dopo il tracollo con la pandemia: 55 miliardi di euro nel 2022, 56,9 miliardi nel 2023, 55,7 miliardi di euro nel 2024. Se non è un taglio, è uno stagno: fermo. Un paio di obiezioni, a questo snodo iniziale del pezzo, può sobbollire nei pressi della maggioranza: sì, però va computato il calo demografico, i bambini non nascono, interi plessi di provincia, desertificati, chiudono.
La popolazione scolastica (3-19 anni) si è asciugata di oltre mezzo milione di bambini e ragazzi in un decennio. Adesso la decrescita è inesorabile e assai veloce: 7,194 milioni con 364.069 classi a settembre 2023, 7,073 milioni con 362.115 a settembre 2024, previsti 6,9 milioni alla prossima riapertura. Riscontrato un fenomeno nazionale ormai consolidato nel tempo, cioè il calo demografico (premesso che la popolazione residente è aggrappata ai 58,9 milioni con oscillazioni contenute grazie ai migranti), è compito dei governi porre rimedio. La scuola è indubbiamente un fattore che incide sulle scelte delle coppie italiane e dunque sul calo demografico. Un esempio, che va oltre la popolazione scolastica nella definizione classica: la carenza di asili nidi. In Italia soltanto un bambino su tre ha l’opportunità di accedere a una struttura pubblica, vuol dire che soltanto una famiglia su tre ha l’opportunità di usufruire di un servizio pubblico senza rinunciare a carriere e risparmi oppure senza attingere al principale “welfare italiano”: i nonni.
La seconda obiezione che discende dalla prima: sì, però da sempre i governi non elargiscono risorse aggiuntive alla scuola e lo fanno in particolare per il calo demografico. Non è proprio vero. Se l’assunto è «meno soldi alla scuola perché ci sono meno studenti», e lo si ripete ovunque, l’assunto è scorretto. Per due motivi. Uno: la situazione generale delle scuole non è talmente eccellente da consentire risparmi mirati. Due: l’Italia è la peggiore in Europa e fra le nazioni avanzate del mondo.
La spesa per studente in rapporto alla spesa pubblica totale pro capite, secondo i calcoli dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica diretto da Carlo Cottarelli, è passata dal 49 per cento nel 2000 al 37 nel 2023. Il precipizio si spalanca con la crisi economica del 2008, seguono alti e bassi con un picco nel 2018 (governo Gentiloni), poi si va giù senza sosta. La curva in discesa è martoriata anche dai vari bonus edilizi (governo Conte II), varati nel 2020 per risvegliare il prodotto interno lordo dopo il Covid. Più semplice: la spesa pubblica totale pro capite viene drenata maggiormente dal ministero del Tesoro perché deve scontare miliardi di euro in bonus edilizi, strumento che ha attirato le critiche più feroci di gran parte di questo governo, e perciò la porzione attribuita a Istruzione o Interni o Esteri risulta più piccina. A ogni modo, in questa classifica di spesa per studente in rapporto alla spesa pubblica totale pro capite, l’Italia è ultima in Europa, preceduta di un soffio dalla Francia, ben più avanti Regno Unito, Germania e Spagna. Il terzetto è sopra il 45 per cento della spesa, l’Italia già cinque anni fa, assenti i bonus edilizi, era lontana da questo livello di benessere.
Allargando lo sguardo, e dovranno farlo anche i parlamentari della Commissione cultura, istruzione e scienza, è facile notare che persino la spesa per il ministero dell’Università e della Ricerca retto dalla forzista Anna Maria Bernini è stagnante, se non tagliata con ribassi di qualche decimale, nonostante la popolazione universitaria sia in discreto aumento e superiore ai 2 milioni di iscritti. La sintesi dell’Osservatorio è parecchio efficace: «Il confronto è impietoso per l’istruzione terziaria: l’Italia non solo è ultima tra gli Stati membri dell’Unione Europea e dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), ma è anche molto distante dagli altri. Nel 2021 spendevamo per ogni studente il 16 per cento del nostro reddito pro capite, contro il 30 della Germania, il 26 della Francia e il 24 della Spagna. In Danimarca, dove l’università è gratuita, la spesa per studente era il 32 per cento del reddito pro capite, il doppio che in Italia».
Per i circa 7 milioni di studenti (3-19 anni), denunciano i sindacati scorrendo le piante organiche, a settembre spariranno 2.174 bidelli e segretari e 5.660 insegnanti come da legge di Bilancio, nel mentre il medesimo governo sta cercando di completare l’immissione in ruolo di 70.000 precari entro il 2026 con il denaro del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Quest’anno come da tradizione, diverse classi avranno il corpo docente mutilato per diverse settimane imponendo orari (e apprendimenti) ridotti.
I parlamentari della Commissione, comprensibilmente annoiati per il reiterarsi delle cifre, presto scopriranno che l’87,4 per cento dei circa 55,5 miliardi utilizzati nel 2024 è servito per gli stipendi del personale scolastico e che le altre voci sono sostanzialmente fossilizzate. Con una eccezione. La spesa per le “istituzioni scolastiche non statali”, le scuole private, ha impegnato 714 milioni di euro; erano 620 milioni due anni fa col governo Draghi, 286 milioni dodici anni fa col governo Monti. Pure a saldi (soldi) più o meno invariati, volendo, i governi di ogni colore politico e di ogni alleanza bislacca possono plasmare l’istruzione di domani. E da qualche legge di Bilancio, a passo lento e però costante, l’indicazione comune – a centrodestra e centrosinistra e anche a esecutivi tecnici – è finanziare le scuole private.
Con la scusa della “denatalità”, il calo demografico, alle politiche per l’istruzione (statale) si può togliere senza suscitare proteste, anzi è sufficiente rintuzzare con una fatidica domanda, tipica di un periodo di guerre, violenze, inflazione: a cosa servono più soldi? Risponde la deputata Irene Manzi, la responsabile scuola del Partito Democratico che ha l’agio di essere all’opposizione, ma l’obbligo di immaginarsi al governo (in epoche ingiallite, si sarebbe definita ministra ombra): «Più soldi servono ad adeguare le retribuzioni degli insegnanti, a colmare i buchi di docenti, a migliorare la didattica, a incentivare le attività, a incrementare i rientri settimanali».
Al contrario, pur richiamandosi al merito, il ministero di Valditara è abile a scansare il merito delle questioni, dilettandosi in polemiche a costo zero come il voto in condotta, il patriarcato che non esiste, l’Occidente predominante. La solita coltre di nebbia per coprire tutto e confondere tutti. I fatti resistono. E i fatti – come le tabelle dell’Osservatorio – dicono che nel mazzo dello Stato, appurato il peso dei bonus edilizi, c’è un unico ministero che si ingrossa: è il ministero della Difesa, che fa un bel salto da 29,9 miliardi di euro nel 2022 a 34 miliardi nel 2025. Certo, le minacce sono tante, il nemico è alle porte. Imparare le lingue, no? Magari aiuta.
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