Politica
5 settembre, 2025Azione via dal campo largo a partire dalle Regionali: il leader centrista spiega perché. “Quella non è una coalizione di governo, ma deriva populista”
Certamente Paolo Gentiloni sarebbe preferibile a Elly Schlein, ma il problema non è chi candidare per Palazzo Chigi. Soprattutto nella prospettiva delle elezioni politiche, Carlo Calenda boccia il campo largo giudicandolo troppo sbilanciato dalla parte di Giuseppe Conte, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni. Con Matteo Renzi nessun problema personale: è il suo «trasformismo» a non convincere. Ecco, in questa intervista, i motivi che spingono Azione sempre più lontana dall’alleanza di centro-sinistra, a partire dalle Regionali. Ma la segretaria del Pd – osserva l’ex ministro – eviti «di fare i conti senza l’oste» celebrando troppo presto l’unità dei progressisti: quando finirà la legislatura, il leader M5s potrebbe sempre sfilarsi dall’alleanza per ora confinata alle Regionali.

Senatore Calenda, partiamo dalla sua scelta: quella di non contribuire alla costruzione della gamba centrista del campo largo, di cui si torna a parlare. È una decisione definitiva?
«Sono assolutamente deciso a non partecipare. Ritengo che il campo largo, con la presenza rilevante dei Cinque Stelle e di Alleanza Verdi Sinistra, cada nella trappola francese alla Melanchon, diventando una coalizione non di governo. Questa è la posizione che Azione ha sempre avuto e trova oggi una conferma dalle Regionali. Giorno dopo giorno, c’è uno sbilanciamento sempre più verso quello che non chiamo neppure estremismo ma una schiera di candidati populisti che promettono cose che non realizzeranno mai».
Lei denuncia un cedimento del Pd ai Cinque Stelle in occasione delle Regionali d’autunno e anche sui programmi. Ma Schlein, per chiudere gli accordi con Conte, realisticamente aveva altre possibilità?
«Schlein ha sbagliato dall’inizio: se dice che qualunque cosa succeda lei resta unitaria offre di conseguenza a partiti più piccoli del Pd, nello specifico i Cinque Stelle, la possibilità di imporre l’agenda. Viceversa Schlein avrebbe dovuto stabilire autonomamente programma, agenda e candidati, proponendoli poi ai Cinque Stelle e lasciando a questi ultimi il rischio di un fallimento della trattativa. Se si continua a mantenere in vita M5S come è già avvenuto con il Conte 2 (ed io sono uscito dal Pd proprio perché non condividevo quella scelta dopo che i grillini erano finiti), se Schlein continua a rafforzarlo con la candidatura alla guida della Regione Sardegna destinata a essere vincente e poi con il via libera a Fico in Campania, a Tridico in Calabria e obbligando in Toscana Giani a sottomettersi alla Taverna, inevitabilmente aumenterà il peso dei Cinque Stelle in vista delle elezioni politiche, condannando però la sinistra alla sconfitta».
I retroscena giornalistici raccontano le manovre dei riformisti del Pd per evitare che alle prossime Politiche Schlein sia la candidata premier del centro-sinistra. Se questi tentativi dovessero andare in porto, Azione cambierebbe posizione rispetto al campo largo?
«No, perché il problema non è il candidato presidente del Consiglio. La Schlein peraltro ha tutto il diritto, come leader del principale partito della coalizione, di rivendicare quel ruolo. Il problema è molto più profondo, più strutturale. In Italia, la sinistra, così come si è ormai configurata, non è in grado di governare. La coalizione di sinistra, come è già avvenuto alla coalizione di destra, si è radicalizzata. Con la differenza che Meloni – avendo capito che i suoi voti vengono in larga parte da ex democristiani, ex socialisti, ex liberali, che si sono appoggiati alla sua figura – si è “moderata”. Quello che sta realizzando il Pd è l’esatto contrario: sposta ancora più a sinistra il proprio baricentro. È chiaro che se Paolo Gentiloni fosse il candidato premier sarei più contento, ma resterebbe il problema dell’assetto della coalizione. Nell’attuale fase storica, in un contesto internazionale così duro, quelle scelte politiche non consentono di governare. Lo vediamo in Francia, dove le ultime elezioni legislative sono state vinte dagli anti-lepeniani tutti insieme, ma non si è capito che quel risultato elettorale avrebbe condotto solo a un disastro come constatiamo in questi giorni. Perciò, in Italia, così come si è strutturata, la sinistra non arriva a governare, chiunque sia il candidato presidente del Consiglio».
Lei però sa bene che l’accusano di eccessivo protagonismo e di essere troppo condizionato da un pessimo rapporto con Renzi. Cosa risponde?
«Non ho un pessimo rapporto personale con Renzi: ci siamo sentiti anche quest’estate. Quindi, non è questo il punto. La questione è che Azione nasce per coprire uno spazio liberal-repubblicano al centro dello schieramento politico. Rilevo che Renzi ha invece una propensione al trasformismo, caratteristica che può constatare chiunque. È una posizione, la sua, che non si sposa con i valori fondamentali di Azione, che non sono valori astratti perché, per paradosso, siamo gli unici disponibili al compromesso politico, nel senso che siamo sempre pronti a votare provvedimenti di qualsiasi colore politico se sono giusti. I nostri sono compromessi per realizzare un risultato, a differenza di quelli praticati astrattamente da chi sa in partenza che non governerà. Il “divertissement” di Renzi è uscire dal Pd per dire no ai Cinque Stelle; poi portare Italia Viva nel Conte 2 e poco dopo farlo cadere; e ancora, lanciare il Terzo Polo e successivamente andare con i Cinque Stelle; e dopo … Insomma, questa roba a me non piace, o almeno non è il mio modo di vivere la politica, anche se riconosco a Renzi grandi capacità politiche».
A quale elettorato guarda Azione?
«È un elettorato molto simile a quello che mi ha sostenuto nella campagna per Roma, quando ero candidato sindaco. Un terzo di centro-destra, un terzo di centro, un terzo di centro-sinistra. Persone pragmatiche che si erano molto stancate di vedere programmi non fondati su cose concrete, a partire dalla sicurezza delle città, che è il tema vero di cui la sinistra però non riesce a occuparsi. Inoltre, sempre a Roma, eravamo molto duri sul decorso urbano e impegnati sulle infrastrutture nonché sul termovalorizzatore. Ne scaturì un’agenda che riusciva a mettere insieme mondi diversi: chi aveva votato per il centro-destra e chi in passato aveva scelto il centro-sinistra. E oggi credo che il Paese abbia necessità proprio di un fronte liberal-repubblicano».
Resta il fatto che il Rosatellum non favorisce le corse solitarie di singole forze politiche. È favorevole a una riforma elettorale in senso proporzionale alla quale lavora il centro-destra?
«Da molti anni sono favorevole al proporzionale, perché rende meno estremo e muscolare il confronto politico. L’attuale legge elettorale ci ha consentito, come Terzo Polo, di raggiungere l’8% ma se a sfidarsi fossero l’intero centro-destra unito e il campo largo con dentro i Cinque Stelle sarebbe solo una vittoria di misura per l’una o per l’altra alleanza, con la conseguenza che uno schieramento minore che superi il 4-5% si rivelerebbe essenziale. Quindi, ben venga il proporzionale con l’indicazione, non l’elezione, del premier. Però – ripeto – l’attuale legge elettorale offre comunque spazio a una forza che preferisco non definire “centrista” , ma liberale, riformatrice, incisiva sui temi politici».
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