Politica
5 settembre, 2025Non possiamo difendere l’indifendibile: da Milano a Roma, abbiamo responsabilità sul tema del governo del territorio e della riforma del sistema degli enti locali
Le nostre città, i territori dell’interno del nostro Paese, navigano senza rotta come spersi vascelli tra le onde potenti della globalizzazione finanziaria e immobiliare. Le istituzioni pubbliche, fragili e male organizzate, subiscono la forza di grandi player internazionalizzati e strutturati.
Il caso Milano e il caso Roma sono due diversi esempi di questo caos e della insensibilità, sprovvedutezza, disinteresse, superficialità con cui l’intera classe dirigente italiana e, mi spiace ammetterlo, anche la sinistra democratica, il Pd e tutte le forze di opposizione, si pongono o hanno affrontato in passato, il tema del governo del territorio e della riforma del sistema degli enti locali e del governo locale in Italia.
Il caso Milano non è una sorpresa. Da decenni in Lombardia si è scelto un modello normativo per le trasformazioni del territorio estremamente semplificato; un modello che oltre certi limiti si è trasformato in una “dittatura urbana” che apre autostrade a grandi poteri finanziari e immobiliari, strutturati e radicati nel territorio e comprime gli interessi pubblici in termini di partecipazione – non si possono fare della Cila (Comunicazione di inizio lavori asseverata) per elevare importanti edifici in variante di Sul (Superficie utile lorda) e trasformare intere parti di citta – e di congruo prelievo fiscale di parte della enorme rendita che certe operazioni producono.
Non è un problema solo lombardo, beninteso. Molte città e molte amministrazioni tendono ad aderire al modello super-semplificato e spesso ignorano o scavalcano colpevolmente norme nazionali come quella contenuta all’articolo 16, comma 4 lettera d-ter del Testo unico per l’edilizia che stabilisce inequivocabilmente che metà dei valori aggiuntivi delle valorizzazioni immobiliari debbono essere restituiti, in varie forme chiaramente elencate, alle amministrazioni che rilasciano i permessi.
Purtroppo si continua ad ignorare il problema di fondo: rifare una legge urbanistica nazionale moderna, fissare un principio costituzionale che riconosca le periferie e le aree interne come una dimensione contemporanea strutturale che limita i diritti di cittadinanza. Ci si balocca senza iniziative pratiche intorno alla evocazione della “rigenerazione urbana” che oramai non è altro che un premio alla rendita per fare edifici moderni nelle zone di alto valore immobiliare mentre è un concetto che deve allargarsi alla dimensione sociale e integrarsi con il “governo del territorio” che è la base per una economia sana e per una politica sociale equilibrata e giusta, in quanto riguarda l’uso del suolo, prima risorsa di ogni attività umana.
A Roma il problema di queste settimane si è concentrato sui poteri della Capitale, sulla legge costituzionale che potrebbe assegnare facoltà legislative all’Assemblea capitolina segnando una svolta storica nel lungo e tortuoso percorso pluridecennale del riconoscimento dell’evidente specialità di Roma come grande metropoli a vocazione internazionale, di dimensioni e complessità imparagonabili con qualunque città europea e con molte del mondo.
Il governo ha avanzato un ddl che raccoglie un lungo percorso parlamentare nato da una proposta di legge da me presentata nel lontano 2013 e che poco a poco si è fatta strada nel dibattito politico e giuridico-costituzionale. Certamente nella mossa del governo c’è una furbizia politica: appropriarsi di un tema fortemente sentito a Roma, ad ogni livello, alla vigilia delle elezioni. Ma è pur vero che il Campidoglio, nelle interlocuzioni istituzionali, ha con nettezza segnato dei paletti di procedura e di contenuto che possono e debbono costituire la base di un’intesa che finalmente risolva il problema di Roma e funzioni in futuro – ma so di dirlo in perfetta solitudine – come un modello estendibile a due altre città che hanno a loro modo delle specialità e una storia di “capitalità”, come Milano e Napoli.
Mi dispiace che nel Pd sembra non essere compresa la necessità di avviare questo processo e di non restare abbarbicati alla difesa di un sistema che non regge più. Il Pd, da anni, si è limitato a trattare un’attenuazione del modello leghista di autonomia differenziata ma qui va rovesciato questo tavolo con una organica e complessiva proposta alternativa.
Purtroppo, va detto, la cancellazione della rappresentanza democratica delle Province è un altro elemento che ha indebolito il sistema e forse contribuito anche a una disaffezione e sfiducia nell’efficienza delle istituzioni nelle zone interne. Occorre fissare un principio costituzionale che riconosca la dimensione particolare delle periferie e delle aree interne, puntare su una nuova legge urbanistica nazionale che fissi alcuni principi semplici ma invalicabili di tutela dell’interesse pubblico, dei beni ambientali e storico-culturali, della fiscalità urbana e guidi l’iniziativa privata con briglie adeguatamente liberali dentro alcune barre chiare, una struttura ordinamentale per le città – soprattutto le “capitali” – che riconosca l’insufficienza degli attuali poteri solo amministrativi e la necessità di esercitare potestà legislative concorrenti su alcune materie, un ritorno alle province elettive – magari in numero minore – e una seria riflessione sulle forme attuali del regionalismo che prenda in considerazione la riduzione del numero e dello squilibrio territoriale delle attuali Regioni.
Nell’immediato si può partire da Roma, da una nuova legge di governo del territorio e dal riconoscimento costituzionale della condizione di limitata cittadinanza delle periferie urbane e delle aree interne. Credo che il Pd debba cambiare gioco e non più solo difendere ciò che, con tutta evidenza, non funziona più.
*Deputato Pd
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