L’orizzonte è cancellato dalla foschia. Quello che resta della linea del mare è un profumo lontano che arriva al Girfalco sporcato dal vento di collina. Il parco cittadino di Fermo guarda dall’alto le dune che costeggiano la riviera e si allungano fino ad aggregarsi in montagne alte e spigolose, i Sibillini. «L’idea è nata dal fabbisogno territoriale, ma anche dalla nostra esperienza. In questi anni abbiamo affinato un modello di cura utilizzando le linee guida, facendolo nostro in base alle diverse esigenze. Nel tempo la patologia è cambiata», spiega Patrizia Iacopini, direttrice del Centro per i Disturbi del Comportamento Alimentare dell’Ast di Fermo, nelle Marche.
Il disturbo alimentare si insinua tra i riflessi allo specchio, i bottoni dei jeans che sembrano stringersi, le molliche del pane sbriciolato a tavola. «Non solo sono aumentati i casi da prendere in carico, ma c’è stato un cambiamento del volto della psicopatologia alimentare, e la famiglia è diventata un pilastro nel trattamento», aggiunge Iacopini. Quando il concetto di cura si fa organico, la sfera psichica si stringe a quella orale, della parola, attorno al concetto di bisogno: la rete di cura si allarga attingendo alle risorse sanitarie, cliniche e riabilitative, restando aggrappata al territorio e al contesto familiare e sociale. «Abbiamo creato uno spazio protetto dove i pazienti potessero sperimentarsi sotto l’osservazione di più esperienze professionali», continua Iacopini, con un approccio terapeutico capace di ridurre i tempi, i costi, ed evitando la disgregazione delle relazioni personali e i ricoveri ospedalieri.
Lo spazio del Centro è luminoso, ramificato in tre piani: nato nel 2004, nel tempo si è ampliato e strutturato con nuove figure e spazi, fino a diventare nel 2016 un ambulatorio pubblico ad alta intensità assistenziale al servizio anche delle province di Ascoli Piceno e Macerata. Al suo interno si alternano attività riabilitative di gruppo e laboratori, insieme a visite mediche, controlli e colloqui terapeutici che interessano sia i più giovani che gli adulti. «Utilizziamo un approccio che noi abbiamo rinominato pasto condiviso», differente da quello riconosciuto a livello nazionale che prevede una prassi asimmetrica tra operatore e paziente, «un metodo orizzontale dove non si tratta solo di correggere», e quindi mettere in crisi il sintomo, «ma rettificare il rapporto col cibo attraverso la parola», cercando di estinguere il disturbo, spiega Filippo Romagnoli, educatore sociosanitario della struttura. Nella cura dei disturbi alimentari c’è un rapporto consequenziale tra cibo e oralità, «cerchiamo di incentivare il più possibile lo scambio comunicativo», cercando di scavalcare il silenzio, «dove si insinua il disturbo. Quando i pazienti cominciano a dar voce ai loro bisogni e alle loro emozioni, si ridimensiona l’aspetto sintomatologico», continua Filippo. Destrutturare il sistema di cura tradizionale ha permesso di rimodulare l’approccio e operare su un piano che mettesse il soggetto e l’operatore nella stessa posizione, in un «rapporto dove il cibo non viene depotenziato del suo valore libidico, ma riabilitato», spiega Franco Lolli, psicoanalista e supervisore clinico del Centro.
Risalendo la piazza centrale di Fermo, l’Opera Don Ricci si arrampica per il colle Sabulo, protetta dagli alberi secolari del Girfalco. Le suore dell’Istituto offrono alloggio alle pazienti che per difficoltà dovute alla lontananza non riuscirebbero a frequentare il Centro, e in alcuni casi la distanza dalle famiglie è funzionale al percorso terapeutico. Indicando una rondine disegnata su un muro, Madre Speranza, la responsabile, spiega che la collaborazione con il Centro è nata anni prima, e che lo scambio con l’equipe medica è fondamentale per orientarsi nell’intervento. Una volta al mese si svolgono i gruppi di mutuo aiuto organizzati da Fada, un’associazione nata nel 2016 su iniziativa di familiari di persone con disturbi del comportamento alimentare. Gli incontri sono densi: un padre racconta la ricaduta di sua figlia, una madre l’ossessione del figlio per la palestra, c’è chi arriva per la prima volta e si presenta e basta, schiacciato dal peso dell’emozione. «Mi chiama una mamma», raccontando la storia di suo figlio, «fuori dal classico disturbo, le ho detto di venire», spiega Carla Coccia, presidente di Fada. Quando si è presentata agli incontri mensili si è portata un’altra madre, preoccupata per la figlia. «Come associazione andiamo a dare una prima risposta a una persona che chiede aiuto, prima che arrivi al medico di base e prima che arrivi alla struttura», e non avviene solo nelle Marche. «Ci chiamano anche persone fuori Regione che noi orientiamo su altri territori», poi c’è la formazione a scuola, degli insegnanti, le collaborazioni con le istituzioni, co-progettazione di interventi e momenti di restituzione dei risultati.
I fondi che il Ministero ha erogato con la legge di Bilancio per il 2022 «hanno dato respiro agli ambulatori», spiega Carla, «ma non tutte le Regioni hanno saputo utilizzarli al massimo». Fondi che non sono stati inseriti nella finanziaria 2025 del Fondo per l’anno 2026 necessario a garantire la continuità degli interventi e dei servizi, che ha portato più di 40 associazioni nazionali a denunciare l’operato governativo. Carla parla elegantemente, con gesti morbidi si sistema un ciuffo biondo dietro l’orecchio: «Tutti abbiamo sogni sui nostri figli», è difficile accettare una patologia che ridimensiona le aspettative, «ne riemergono diversi da com’erano prima».
La condizione psichica ingloba non solo il singolo, ma anche i soggetti e l’ambiente che lo circondano: il sintomo è sensibile al contesto sociale, e risente dei tratti tipici della contemporaneità. «L’esplosione dei disturbi dell’alimentazione risponde a una logica: concentrare l’attenzione sul cibo è un modo efficace per riprendere il controllo di un’esistenza che è sempre più assediata da un fenomeno fondamentale della nostra contemporaneità», spiega pacato Lolli. «L’angoscia», uno stato di ansia che oggi domina i soggetti giovani, «che è un fenomeno incontrollabile», che si diffonde su tutta l’esistenza. Circoscrivere l’ansia alla pratica dell’alimentazione ne rende possibile il controllo. «La fobia è il modo per trattare l’angoscia», instaurando un rituale e seguendolo, così avviene nei disturbi alimentari. La differenza tra questi e i semplici disturbi di natura psicologica, secondo Filippo, è la forma di dipendenza dal cibo che li caratterizza. «Non possono essere trattati semplicemente allontanando il soggetto dalla sostanza tossica, perché questa è una sostanza di vita di cui non si può fare a meno».
Il trattamento e la cura non passano dall’allontanamento dal cibo, ma tramite il cambiamento del rapporto che il singolo ha con esso. Secondo Laura Pelliccetti, psicologa del Centro, ciò che distingue il soggetto con disturbo alimentare è il rifiuto, «l’aiuto che il paziente chiede nelle altre patologie in questi casi è un punto di arrivo, non un punto di partenza». Per Iacopini sono cambiate anche le famiglie, e il disturbo oggi appare contaminato da altre condotte e dal condizionamento mediatico. «L’utente è più fragile», e influenzabile dall’esterno. Esiste una sottostimazione del fenomeno, poiché questi disturbi sono contemporanei al periodo storico in cui sono inseriti. «Ne sono l’espressione contraddittoria, perché oggi più che mai c’è un’attenzione spasmodica intorno al corpo», conclude Filippo. Ci vorrebbe un adeguamento degli spazi, spiega Iacopini, per poter ospitare più pazienti, ma affinché l’intervento sia più efficace e puntuale si dovrebbe creare un’omogeneità di servizi a livello nazionale. Con una riduzione costante delle prestazioni del Sistema sanitario, c’è il rischio che la presa in carico di queste patologie venga delegata al privato, mentre sarebbe fondamentale che la loro gestione restasse pubblica.