Salute
11 agosto, 2025I malati sono 265 mila, le diagnosi crescono. La dieta alimenta un mercato da 250 milioni di euro: prezzi alle stelle e Iva pesante. Un sistema che le associazioni chiedono di correggere
Il cibo senza glutine costa dalle tre alle cinque volte in più rispetto a quello convenzionale ed è l’unica terapia esistente per curare la celiachia, malattia autoimmune cronica dell’intestino tenue che, per chi ne soffre, richiede una rigorosa dieta priva di glutine da seguire a vita.
In Italia ci sono oltre 265 mila persone celiache e diagnosi in costante crescita e sembrerebbe lecito credere che i prodotti per questa patologia siano reperibili ovunque e a prezzi “politici”. Non è così. Nel 2024 pane e pasta senza glutine costavano circa tre volte in più di quelli di grano e il mix di farine era quasi cinque volte più caro rispetto a quello tradizionale.
È un mercato di nicchia, che interessa l’1-2 per cento della popolazione, quindi con economia di scala ridotta, con processi produttivi più complessi, che richiedono l’approvvigionamento di ingredienti specifici, controlli più rigorosi e procedure di pulizia particolari, oltre a investimenti in ricerca e sviluppo. Insomma, produrre senza glutine è più costoso, ma incide anche la catena di distribuzione. Esistono tre canali: le farmacie (con prezzi sopra la media), i negozi specializzati (varietà enorme di prodotti per tutte le tasche) e la grande distribuzione (più economica, offre soprattutto prodotti base). In tutti e tre si possono fare acquisti spendendo l’importo mensile dell’assistenza integrativa del Servizio sanitario nazionale, tra le migliori al mondo, una sorta di “buono” che vale mediamente 950 euro annui pro capite e alimenta un mercato complessivo da circa 250 milioni di euro, cui si aggiunge un terzo di valore di mercato portato da chi sceglie di comprare senza glutine per ragioni diverse dalla terapia.
Caterina Pilo, direttrice generale di Ai, l’Associazione italiana celiachia nata nel 1979 e che da allora dà voce alle necessità dei celiaci nei più importanti contesti istituzionali, spiega che «per legge, i prodotti erogabili sono solo quelli del Registro nazionale aggiornato dal ministero della Salute. Con il decreto del 2018, oltre al tetto di spesa, si è rivista la classificazione degli alimenti, che è stata resa più rigorosa e aderente alla definizione degli alimenti erogabili che sono quelli “specificamente formulati per i celiaci” secondo definizione Ue, e in cui il sostitutivo del cereale contenente glutine sia prevalente. Da ciò deriva l’uscita dal registro dei grandi esclusi come i prodotti panati. Sono uscite dall’erogabilità anche le farine mono-cereale alternative e su questo noi di Aic continuiamo a sostenere che includerle poteva, e può essere ancora, un’occasione per avere una dieta varia anche di prodotti fatti in casa, che va favorita».
Il timore che il buono mensile carico del Ssn abbia fatto lievitare i prezzi è spesso dibattuto, ma i dati delle più recenti rilevazioni condotte in ambito europeo hanno evidenziato che il prezzo dei prodotti non è più alto in Italia rispetto ad altri Paesi dove l’assistenza non esiste. «La forte azione sulle istituzioni regionali condotta da Aic negli ultimi anni, ha portato alla quasi completa digitalizzazione del buono, con una provata riduzione della spesa media garantita dalla frazionabilità del buono che può oggi essere utilizzato quasi ovunque in tutti i canali distributivi», conclude Pilo. Assoceliaci, neonata associazione di persone celiache e genitori di bambini celiaci, con pochi iscritti ma che vanta un certo seguito sui social, intende dare battaglia all’attuale sistema. Come spiega il presidente Silvio Spicacci Minervini«il sistema attuale ha contribuito a trasformare il senza glutine in un business multimilionario, in cui il celiaco è visto più come un consumatore da fidelizzare che come una persona da tutelare. I prezzi sono spesso sproporzionati rispetto ai costi reali di produzione. Il buono mensile è una misura importante e giusta, perché riconosce un diritto e un’esigenza sanitaria, tuttavia, così com’è oggi, rischia di drogare il mercato: vincola la spesa a determinati canali e prodotti, disincentiva la concorrenza sui prezzi e favorisce chi ha interesse a mantenere alto il costo dei prodotti senza glutine. Serve una riforma che metta davvero al centro il celiaco, non il mercato».
Susanna Neuhold, responsabile nazionale Qualità & Sicurezza alimentare Aic e del board della Federazione europea delle Associazioni per la Celiachia Aoecs, sui prezzi spiega: «La proposta di Aic, già presentata alle istituzioni di riferimento è quella di agire sull’Iva, perché oggi molti prodotti senza glutine, pur essendo di base, sono tassati ancora al 10 per cento invece che al 4. Esiste già una iniziativa analoga in Spagna, che funziona. Inoltre, è recente l’iniziativa di una petizione al Parlamento europeo e sostenuta da Aoecs che ha richiesto, tra le altre cose, l’introduzione di un modello di sostegno dei celiaci analogo a quello italiano e la valutazione di possibili interventi che considerino l’intera filiera produttiva».
Assoceliaci intanto sottolinea la preoccupazione rispetto al fatto che i negozi specializzati stanno progressivamente chiudendo, perché non riescono a competere sul piano dei prezzi e dei volumi, e sarebbe quindi favorevole a rivedere l’elenco dei prodotti erogabili con criteri più coerenti e strategici; inoltre propone di limitare la spendibilità del buono nella grande distribuzione a una selezione di prodotti ad ampia commercializzazione, lasciando ai negozi specializzati e alle farmacie l’erogazione di prodotti più specifici.
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