Piacerà a Zerocalcare il Serpentine Pavilion di quest’anno: la struttura progettata dall’architetta bangladese Marina Tabassum per il tradizionale omaggio estivo delle gallerie Serpentine di Londra ricorderà, ai lettori italiani, la corazza dell’Armadillo, famoso alter ego del graphic novelist romano. In realtà l’ispirazione viene dalle tende shamiyana, strutture cerimoniali di tela e bambù tipiche dell'Asia meridionale. Una coincidenza che indica le due direttrici su cui è indirizzata l’architettura contemporanea in cerca di soluzioni amiche dell’ambiente: recuperare tecniche costruttive antiche o tradizionali, oppure guardare direttamente alla natura.
«Immaginiamo di voler progettare un edificio: perché non ispirarsi alla maestosità di un bosco, alla saggezza di un alveare o alla perfezione di un guscio d’uovo?», si chiede l’antropologo Andrea Staid all’inizio del suo saggio “Dare forme al mondo. Per un design multinaturalista” (lo pubblica Utet nella collana Dialoghi di Pistoia, dal nome del festival dove viene presentato sabato 24 maggio). Ispirarsi alle forme della natura non è una novità: «Pensiamo alle ragnatele», spiega Staid, «con la loro incredibile combinazione di resistenza e leggerezza: hanno chiaramente ispirato la progettazione di strutture leggere ma capaci di sopportare grandi carichi, come la copertura dello stadio olimpico di Monaco di Baviera progettata nel 1972 da Frei Otto».
Oggi però è bene guardare al mondo animale per copiare strategie rese sempre più preziose dall’emergenza climatica come la termoregolazione («i nidi degli uccelli hanno la capacità di regolare la temperatura interna e di garantire la ventilazione») o la resistenza a venti e bufere sempre più impetuosi e frequenti: «Le conchiglie, con la loro struttura robusta e la forma aerodinamica, sono già il modello di edifici costieri progettati per deviare vento e onde e resistere a condizioni climatiche estreme».
Costruire case green non è solo una necessità: è un sogno per quattro italiani su cinque. Che vorrebbero un’abitazione a basso impatto energetico ma non possono permettersi la ristrutturazione necessaria. Lo ha mostrato una ricerca finanziata da Bnl Bnp Paribas che ha coinvolto 12mila persone di otto Paesi europei. Ne emerge che gli italiani sono più preoccupati di altri degli effetti negativi del cambiamento climatico: 3 su 4 dicono di aver già modificato le proprie abitudini per adattarsi alla nuova situazione.
Il 47 per cento vorrebbe ristrutturare la propria casa per proteggerla dai rischi climatici, ma quasi 80 su cento giudicano il processo troppo costoso e burocraticamente complesso. Il 57 per cento di coloro che sono in condizioni economiche non agiate è convinto di non poter migliorare la propria situazione. E dopo le alluvioni dell’anno scorso, fa impressione leggere che un italiano su tre teme di dover essere spinto a traslocare, nei prossimi 5 anni, a causa dell’esposizione della propria casa ai rischi climatici.
Ma davvero una casa ecologica è solo roba da ricchi? Certo, ha fatto parlare lo chalet d’avanguardia realizzato da Lado Architetti nei boschi di Roncastaldo (Bo), con una struttura di palafitte che lo mette al riparo da possibili smottamenti e sistemi che lo rendono autonomo per la produzione di acqua, riscaldamento ed elettricità: un gioiello di design ed efficienza che è costato 300mila euro (coperti al 110 per cento dal bonus edilizio del Pnrr). Anche sul fronte economico, però, riscoprire la tradizione o imitare la natura può aiutare.
Tra le tecniche edilizie tradizionali da riscoprire, secondo la newsletter ambientale di Bloomberg, ci sono i riad marocchini (edifici a più piani che affacciano su un cortile rinfrescato da fontane), le “torri del vento” iraniane (torrette traforate che creano circolazione d’aria facendo entrare in casa il vento oppure, nelle giornate afose, offrendo una via d’uscita all’aria calda) ma anche, più banalmente, le coperture d’edera e le persiane di legno massiccio dei palazzi italiani e spagnoli: «A Londra si potrebbe ridurre la mortalità dovuta al caldo estivo almeno del 38 per cento, se si dotassero le finestre di persiane esterne», scrive Olivia Rudgard citando studi dello University College of London.
Unisce rispetto dell’ambiente e attenzione al portafoglio la scelta di materiali a chilometro zero. Qui più che gli animali, che sono ovviamente maestri nel costruire ripari duraturi con gli elementi che hanno a disposizione senza doversi sobbarcare lunghi spostamenti e trasporti faticosi, sono le culture indigene a salire in cattedra: «Se devo citare delle buone pratiche», dice Staid, «penso all'uso della terra cruda come materiale da costruzione in molte culture africane e mediorientali, una risorsa abbondante, a basso impatto ambientale e dalle eccellenti proprietà termiche».
Che la terra cruda non sia solo un materiale per costruire capanne lo dimostrano i tanti progetti di Diébédo Francis Kéré, l’architetto burkinabé che nel 2022 ha vinto il Premio Pritzker, il Nobel dell’architettura. Alcuni suoi edifici si ispirano ai termitai «che in natura raggiungono i nove metri di altezza cioè», calcola Steid, «facendo il rapporto sulla scala umana, quasi 3 chilometri».
«Oppure», continua Staid, «consideriamo l’impiego del bambù in diverse regioni asiatiche e sudamericane: è un materiale leggero, resistente e a rapida crescita, ideale per strutture e arredi». E oltretutto parliamo di una pianta che i cambiamenti climatici rendono sempre più adatta alla coltivazione sul Mediterraneo, come dimostrano i rigogliosi boschi di bambù da Trento a Palermo, dal Parco Segantini di Milano al Giardino Botanico di Roma.