Sostenibilità
6 agosto, 2025Oscillando tra negazionismo e catastrofismo perdiamo di vista l’essenziale: l’individuazione dei principali beni comuni planetari, ponendo al primo posto l’acqua
Climate Change è una delle espressioni più frequenti che abbiamo visto circolare negli ultimi decenni in tutti i continenti del globo. Oggetto di confronto-scontro tra politici e scienziati, intellettuali e operatori mediatici, il problema del “cambiamento climatico”, o della “crisi climatica”, ha determinato una pericolosa polarizzazione tra allarmisti e negazionisti, per certi aspetti simile alla celebre antitesi apocalittici-integrati di cui scrisse a suo tempo Umberto Eco.
Anche oggi come allora assistiamo al paradossale fenomeno di un contrasto oscillatorio: le posizioni cambiano e si alternano a seconda di come il problema viene percepito sotto la suggestione dei media della comunicazione, i quali spesso fungono da moltiplicatori delle credenze e dei pregiudizi. Ci si affida così alle nostre percezioni quotidiane, spesso condizionate da fattori emotivi amplificati dal “Si dice” trasmesso dai vari mezzi di informazione, anziché fare riferimento ad analisi rigorose e a dati scientifici consolidati.
A partire, innanzitutto, dallo stesso termine Climate Change: il cambiamento climatico non è la causa del problema, ma al contrario un effetto del Global Warming, del riscaldamento globale. I fattori che lo determinano sono stati già individuati dagli scienziati: emissioni di gas serra, combustibili fossili come carbone e petrolio (con le quantità cospicue di CO₂ che rilasciano nell’atmosfera), allevamento intensivo di bestiame, uso di fertilizzanti azotati in agricoltura, gas fluorurati, costituiscono – assieme alla deforestazione – una somma di fattori che determinano una sorta di coperta intorno alla Terra, intrappolando il calore e dando luogo a un aumento della temperatura media su scala globale.
Il termine “Antropocene” - coniato dal Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen – sta a indicare la nostra epoca come caratterizzata dall’impatto determinante esercitato dalle attività umane sugli equilibri fisico-chimici e le forme di vita del Pianeta. L’epoca dell’Antropocene subentrerebbe pertanto alla precedente epoca dell’Olocene, iniziata 11.700 anni fa, al termine dell’ultima era glaciale.
Grazie agli studi di paleoclimatologia sappiamo, tuttavia, che, nel corso dei suoi 4,5 miliardi di anni, il nostro Pianeta ha attraversato vari cicli climatici, con l’alternarsi di Ere glaciali e Ere interglaciali, periodi freddi e periodi caldi. Per esempio, quello che gli storici chiamano “Periodo Caldo Medievale” ha avuto luogo tra il IX e il XIV secolo e fu caratterizzato da alte temperature anche nel Nord-Atlantico. Ma ancora più sorprendente è che 56 milioni di anni fa, all’epoca del Paleocene-Eocene, le temperature degli oceani erano più elevate di quelle attuali e in aree del Pianeta oggi caratterizzate da climi freddi si erano addirittura sviluppate forme di vita tropicali.
Gli apocalittici che, non senza validi argomenti, preconizzano la fine del mondo indotta dalla violenza estrattiva esercitata dall’azione umana sulle forme di vita animali e vegetali del Pianeta, non sanno forse che proprio una «fine del mondo» ha propiziato la nascita della specie umana: dell’homo sapiens. Sessantasei milioni di anni fa, un asteroide di grandi dimensioni – la cui traccia è ancora visibile nel cratere di Chicxulub, situato nel Golfo del Messico – ha colpito il nostro Pianeta provocando cambiamenti ambientali globali: la scomparsa del 75% delle specie viventi, inclusi i dinosauri (alcuni evolutisi poi nel corso del tempo in miniature: il gallo è, ad esempio, erede genealogico del dinosauro), lo sconvolgimento degli ecosistemi terrestri, ma – evento decisivo – una diversificazione dei mammiferi e la conseguente nascita della specie umana.
La condizione della Terra oggi richiede alla specie umana di “ascoltare” il Pianeta, senza confondere l’Antropocene con l’antropocentrismo. Non siamo i sovrani della Terra, ma i suoi ospiti. Facciamo parte dell’humus del Pianeta, insieme ad altre forme viventi: senza le quali – a partire dalle api – la specie dell’homo sapiens non potrebbe sopravvivere. Occorre pensare insieme all’individuazione dei principali beni comuni planetari, ponendo al primo posto un bene essenziale ma sempre più scarso come l’acqua. L’acqua esistente sulla Terra è, per il 97,5%, acqua salata: gli oceani, i mari. Solo il 2,5% del totale, 35 milioni di km cubi, è acqua potabile. Non tutta raggiungibile e disponibile: il 70% o poco meno dell’acqua potabile è in ghiacciai o nevai permanenti, soprattutto ai poli, cioè in Groenlandia e nell’Antartide. L’acqua della Terra, per i prossimi secoli, è questa. È data una volta per tutte e mal distribuita: intere plaghe del Pianeta sono assetate.
A partire da questa drammatica considerazione dovrebbe attivarsi la politica: a meno che non pensasse, come taluni, di… trasferirsi su Marte. La Terra, questo straordinario Pianeta, è l’unico che abbiamo. Proiezioni matematiche o di Intelligenza artificiale potrebbero anche stabilire con rigorosissimi calcoli che analoghe forme di vita, o addirittura individui identici a noi, compresa l’identità di chi sta ora scrivendo questo articolo, abbiano un perfetto sosia in altre galassie. Ma finora non si ha notizia di una forma di vita o di una sola foglia presente nei pianeti o nelle galassie sotto osservazione.
Mi riconosco in pieno nella battuta finale del dialogo tra Justine e Claire in Melancholia di Lars von Trier: quando all’una che, nell’imminenza della collisione del pianeta con la Terra, parla della possibilità di forme di vita simili a noi in altre galassie, l’altra risponde: «Siamo soli nell’universo. Ci siamo soltanto noi».
E solo in questo straordinario Pianeta, in cui ci è accaduto di essere nati e condurre le nostre vite, sarà dato all’umanità futura fare esperienza, com’è scritto in Apocalisse 21-22, di «Nuovi Cieli e Nuova Terra».
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