Televisione
27 ottobre, 2025Con la miniserie sul serial killer di Firenze Stefano Sollima torna a raccontare le ombre del Paese. Che, oggi come allora, ha sempre odiato le donne
Otto duplici omicidi, sedici morti, diciassette lunghi anni, una sola arma, nessuna soluzione certa. Ed è questa totale assenza di risposte la chiave che muove l’intero racconto de “Il Mostro”, novella miniserie firmata da chi di serie se ne intende giusto un filo. Stefano Sollima, padre putativo di “Romanzo Criminale”, “Gomorra”, “Suburra”, si impossessa di uno dei capisaldi del comune pensiero, nel Paese che ha regalato alla cronaca nera l’autorevolezza della chiacchiera da bar, che brama i delitti ancor più che le pene e di questi si nutre, senza avere alcuna intenzione di saziarsi.
Ma questo assunto lo sventra, smuove e ricompone, riuscendo a farlo proprio, prima di ridarlo in pasto a un pubblico che forse non merita questa inedita e creativa modalità.
Il risultato è un prodotto anomalo, rigoroso, scientifico quasi, in cui le vicende tristemente note sul mostro di Firenze si fanno pretesto per registrare una società tutta, divenuta mostruosa a sua volta. Nella luce giallognola e malsana di una Toscana ferita e ancestrale non spuntano nuovi tasselli da aggiungere a quella che divenne un’ossessione nazionale, non si recita la nenia dei compagni di merende. Ma si guarda ai profili dei soliti sospetti, a partire dalla pista meno battuta, per giungere al ritratto di un Paese remoto e afflitto da una cultura patriarcale neanche fosse un virus inestirpabile.
Lo scenario è livido, attraversato da attori poco noti che riescono nei lunghi silenzi a lasciare il segno come pennellate di colore a caso, strappi sulla tela di un dolore espresso nelle case di provincia. E dietro i finestrini appannati di un’utilitaria in cui il sesso si consuma per piacere e diventa una colpa per dovere, partono gli spari e l’orrore viene ripetuto senza enfasi, cambia angolazione, mano e sguardo, il bambino, l’amico, l’amante, il marito. Il rituale, chirurgico e feroce, colpisce le donne dopo aver eliminato gli uomini nella campagna desolata e poi le sfregia e le umilia, ancora e poi ancora.
Ma colpisce le donne anche tra il salotto buono col divano impellicciato e la camera da letto col centrino sul comò, meri corpi a cui viene negata la scelta, matrimoni combinati, padri, padroni e pregiudizi che si fanno palude e abiti rossi che diventano ferite alla morale comune. Perché ogni gesto di libertà diventa sfrontatezza insostenibile, da punire, ben prima della Beretta calibro 22.
E mentre tornano gli echi di un passato che sembra così vicino da spaventare, i mostri si moltiplicano, in un labirinto di specchi che attraversa i decenni con inesorabile costanza. Come un’ombra collettiva che, ciclicamente, ci chiede conto di cosa siamo diventati.
DA GUARDARE
”Mr Scorsese” di Rebecca Miller (Apple TV) è un documentario necessario. Che in cinque ore di visione, da bere anche tutte d’un fiato, racconta una storia di evoluzione, colma le lacune e prova a tenere conto delle mille sfaccettature di un pilastro inamovibile della storia del cinema mondiale.
MA ANCHE NO
L’hanno voluto chiamare “Radix” il viaggio definito identitario con cui il capitano Edoardo Sylos Labini attraversa il Paese a suo modo per scoprirne, appunto, radici e valori, a partire, neanche a dirlo, da patria e famiglia. Al momento disponibile su RaiPlay ma, e si accettano scommesse, probabile candidato a una prima serata.
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