Televisione
22 dicembre, 2025Il comico aveva trovato la sua dimensione ideale nelle imitazioni con la Gialappa’s. Ma ha preferito buttare il futuro dietro le spalle. E rientrare nei ranghi con l’inutile quiz di Canale 5
Sembrerebbe una storia triste invece lo è. C’era una volta Max Giusti, attore di gradevole ingombranza, capace a volte di mettersi corpo e voce a servizio del mondo sconnesso della televisione. Nella lunga carriera, Giusti saltella dal teatro al varietà, non si sottrae dall’esperienza radiofonica, si affaccia a “Quelli che il calcio”, riesce a far intravedere quella parola ormai in disuso altrimenti detta satira, gira il mondo sotto lo zaino di “Pechino Express” e volantina i toni di Cristiano Malgioglio.
Mosso dal principio di equilibrio, però, cerca di compensare ogni apparizione gradevole con programmi rigorosamente evitabili. Quindi giochi, pacchi da aprire, età da indovinare, canzoni da mascherare e così via. Non manca neppure la parentesi horror di “Boss in incognito”, show democratico in cui il lavoratore povero, che ha dedicato la sua vita alla fabbrichètta, riceve dal padrone buonissimo addirittura una vacanza premio.
Ma finalmente Max Giusti approda nel suo porto sicuro, ovvero le braccia intelligenti del “Gialappa’s Show”. E non sbaglia un colpo. Renato Zero con un velo di omofobia. Alessandro Borghese che odia cibo e concorrenti di tutti e quattro i ristoranti («Magna e non rompere li cojioni»). Aurelio De Laurentiis e la telefonata con Adalberto. Cannavacciuolo che umilia gli aspiranti chef. E più fa ridere più sembra chiaro che finalmente Giusti abbia trovato il posto giusto.
Come spesso accade però, piano con l’entusiasmo. Perché all’arrivo del padroncino, quello che si aggira negli studi per una pacca sulla spalla alle manovalanze che sorridono grate, Giusti riceve un’offerta da Mediaset che evidentemente non può rifiutare: «Far parte della grande famiglia». Così addio Gialappi, basta battute, meno irriverenza. E come un bimbo monello che viene strappato alla ricreazione per risedersi al banco, indossa la giacca per fare il conduttore con valletta (tutto attaccato) di “Caduta libera”, insipido quanto storico giochino a premi di Canale 5. Sai la risposta, vinci, non la sai, precipiti nella botola. Fine. Di incomprensibile contorno, la ballerina Isobel Kinner, che dopo anni di studio indefesso si ritrova teletrasportata in una scollatura, nella speranza mal riposta di riuscire un domani a guadagnare persino due battute.
Alla fine, viene da chiedersi perché nascere con la stoffa se non si predilige l’abito, perché condurre se si ha il mestiere di comico. E viene altrettanto facile rispondersi con l’adagio di Woody Allen «Chi sa, fa. Chi non sa, insegna. Chi non sa insegnare, insegna ginnastica. Quelli che non sanno nemmeno la ginnastica li mandavano alla mia scuola».
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“Isolati con la suocera” (Netflix) è la prova non solo di quanto i reality siano sinonimo di cattiveria d’animo ma soprattutto di come gli autori dei suddetti provino un piacere oscuro, a dir poco personale, causato dalla sofferenza altrui. Al punto da rendere la visione quasi da non perdere
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