Quando Margaret Atwood presentò “Il racconto dell’ancella”, del 1985, disse: «Non descrivo alcun crimine che il genere umano non abbia già commesso, da qualche parte nel mondo e in qualche periodo della storia». Ed è esattamente questa disturbante sensazione di specchio riflesso che si è respirata in “Handmaid’s Tale”, la serie che da quel romanzo ormai celebre ha tratto le sue origini per cinque stagioni, diventate un mattone inscalfibile nell’iconografia globale, e che oggi si ritrova, prepotente, nel suo gran finale, sempre in esclusiva su Tim Vision con tre episodi già disponibili e poi in contemporanea con gli Stati Uniti un rilascio ogni martedì fino al 26 maggio.
L’atmosfera è la stessa, cupa, soffocante, in cerca di una via d’uscita, di uno sguardo che parli di rivolta per riprendere un fiato che viene sottratto appena abbassi lo sguardo. Ma anche il mondo che ci circonda non sta cambiando granché, prediligendo l’involuzione senza neanche troppa grazia, un dito alzato a far da monito, per ricordare quel che potrebbe accadere o quel che è già accaduto. Così ancora una volta la scena si fa presagio.
La sesta stagione comincia con un viaggio sul treno dei rifugiati, June e Serena, la protagonista e la sua nemesi, due donne nemiche che si ritrovano a dover condividere la fuga e la maternità, in estrema sintesi i due pilastri su cui si fonda l’intero racconto dell’Ancella.
Una storia partita da lontano nel terrificante regime di Gilead che rende schiavo il genere femminile togliendogli la parola per ridurlo a mero corpo riproduttivo, che si è evoluto piantando i semi della rivolta e che oggi trova il suo epilogo, perché, per amor di parafrasi a un certo punto anche le donne nel loro piccolo si incazzano.
E mentre si alternano scenari già consolidati, le caste, il patriarcato intoccabile e la maternità come apposizione all’approfondimento dell’azione adrenalinica, tutti i fili sembrano avere la possibilità di ricongiungersi. Anche se chissà come andrà davvero a finire, visto che alla stampa sono stati anticipati solo i primi otto episodi su dieci, mentre Hulu ha già ordinato ufficialmente l’avvio del sequel “The Testaments”, basato sull'omonimo seguito letterario di Atwood da cui è stata tratta la serie originale.
Ma quel che si respira è che la rabbia stratificata deve risolversi in un gesto di costruzione e la violenza crudissima, inoculata negli anni passati come un veleno, si traduce in una spasmodica, reale, ricerca di giustizia. In attesa che il cerchio venga chiuso, sempre sotto l’occhio di uno strano Dio che permette e benedice l’indicibile. Ogni personaggio punta a risolversi, per essere e non solo apparire secondo il costume assegnato in partenza. Si era temuto che questo tempo sospeso non sarebbe riuscito a trovare una sua concretezza risolutiva. Invece, e davvero non accade poi così spesso, la serie sembra salutare lo spettatore lasciando la sua impronta, un evidenziatore colorato sui lati più oscuri del potere e sulla speranza, mai vana, di ritrovare la voce perduta. E come recita il sottotitolo di questo finale, “la rivoluzione è qui”.
«Abbiamo iniziato il viaggio nella prima stagione, nella seconda abbiamo rivendicato il nostro nome. Nella terza ci siamo liberate. Nella quarta stagione abbiamo pregato insieme, nella quinta abbiamo smesso di perdonare e nella sesta siamo pronte ad alzare lo sguardo», ha raccontato il cast. Ed è quello che accade, mentre si amplificano i sentimenti e il senso di impotenza in un mondo che perde i pezzi uno a uno devastato da una crisi ambientale ed economica, mentre i confini diventano labili e complessi, si parla di rifugiati, di respingimenti, di ipocrisie immanenti, di diritti solidamente negati, di restaurazione necessaria.
Difficile ricordare altri esempi simili, in cui il pubblico potesse guardare un racconto distopico e immaginario sul rovesciamento patriarcale e teocratico del governo degli Stati Uniti mentre l’azione del mondo reale si svolgeva in un assurdo parallelo. Ma come si dice, il tempismo è tutto.
Bruce Miller, creatore e produttore esecutivo della serie, lanciò l’episodio pilota della traduzione per immagini del libro di Margaret Atwood, il 26 aprile 2017, appena tre mesi dopo che Donald Trump aveva prestato giuramento come 45esimo presidente degli Stati Uniti. E il giorno seguente la sua rielezione, guarda caso il romanzo tornò nella classifica dei libri più venduti, insieme a “1984” di Orwell. Una sorta di scambio puntuale, una palla che passa attraverso la rete dello schermo portando altissimo il concetto di Nazione, chiusa, repressiva, in cui il dissenso è digerito a fatica, visto come un’aggressione che merita una giusta reazione.
E in questa dura partita, la scena viene eletta a simbolo, come se all’improvviso avesse cominciato a ballare da sola. Le cuffie bianche, il mantello rosso, lo sguardo basso, la bocca chiusa. L’immagine delle ancelle, donne messe a tacere, violate e derubate del senso primario della libertà, abbigliate dalla costumista Ane Crabtree, sono entrate con prepotenza nella dimestichezza del quotidiano.
Non c’è protesta per i diritti che non si sia naturalmente identificata in quelle macchie di colore livido, neanche fossero state costruite a tavolino. Nella Women’s March imperavano i cartelli con la frase Nolite te bastardes carborundorum, primo tassello della lunga marcia per la resistenza contro il regime dell’immaginaria Gilead messa in piedi da June, con il volto indelebile di Catherine Moss passata per l’occasione finale anche dietro la macchina da presa.

I mantelli rossi svolazzavano tra le manifestanti che protestavano contro la decisione trumpiana di regalare fondi ai movimenti per la vita, di sminuzzare il diritto all’aborto come fosse carta straccia. Il costante parallelismo tra la serie e la cruda realtà è avanzato negli anni, mentre il cast conquistava piogge di Emmy sfilando sui tappeti, rossi anch’essi. E visto che si è tradotto in un simbolo immanente, la figura dell’ancella si è poi volantinata nel resto del mondo, fortissimo, Italia compresa. In Argentina, a Gerusalemme. Davanti al Duomo di Milano contro l’obiezione di coscienza. A Verona, nelle manifestazioni e nei cortei di Non una di meno, come se la parola delle donne nelle piazze avesse trovato naturalmente la sua rappresentazione scenica proprio grazie a quella scelta seriale.
E questo inquietante parallelismo, continuo scambio tra l’immaginare il peggio e viverlo, è stato amabilmente riassunto da Bradley Whitford, l’attore che interpreta l’architetto della società dell’orrore, ovvero il comandante Joseph Lawrence alla prima della serie: «Sembra che questo Paese sia governato come una vera e propria Gilead. È come se vivessimo nel peggior episodio di “Handmaid’s Tale” di sempre, dove June sta per essere giustiziata, si gira verso la telecamera e dice: “Ho sentito che sono davvero incompetenti, vero?”».