Dopo il podcast la docuserie Sky Original, “Il Cono d'Ombra" sulla morte del calciatore del Cosenza. Un lavoro minuzioso ed esclusivo. «Questo caso ci dice purtroppo molto di come funziona la giustizia in Italia»

Pablo Trincia: "La mia voce per la verità su Denis Bergamini. Il racconto è una terapia collettiva"

«La vita a volte assomiglia a un palazzo con migliaia di stanze. Ogni giorno ne costruiamo una nuova, che ogni sera chiudiamo e lentamente dimentichiamo, nei lunghi corridoi della memoria. Ma in alcune di queste stanze non possiamo fare a meno di tornarci. La stanza del 18 novembre 1989 è quella in cui spesso tornano i compagni di Denis. Il giorno in cui è entrato al cinema e non è più tornato».

Così recita la voce di Pablo Trincia, quella voce avvolgente che ti si attacca dentro come carta moschicida («Ma non è vero, ci sono persone che hanno una voce molto più bella della mia»), e che ci accompagna per mano in quel buio di trentasei anni fa, in cui il corpo di Denis Bergamini, giovane promessa del Cosenza calcio viene trovato senza vita, trascinato per 64 metri da un camion carico di mandarini. Un suicidio, solo un tragico incidente, anzi no, un brutale omicidio. Su cui aleggiano lo spettro delle scommesse clandestine e della ’ndrangheta, un processo clamoroso, una colpevole in primo grado, i colpi di scena, i non detti, e il dolore sempre vivo della famiglia, degli amici, dei tifosi. 

 

In questa vicenda Trincia si aggira per mesi con la sua squadra, legge, studia, entra negli archivi, non perde un dettaglio. Fino a decidere che quella del calciatore è proprio la storia che merita di essere raccontata. Così nasce “Cono d’ombra – la storia di Denis Bergamini”, prima podcast e ora docuserie in quattro episodi di Sky Original (Il 27 e 28 giugno in esclusiva su Sky TG24, Sky Crime, Sky Documentaries), che ripropone una ricostruzione accurata, con materiali inediti, interviste, testimonianze, i filmini sgranati della videocamera di Denis, i modellini per ricostruire quella notte maledetta. Un’andata e ritorno nel dolore altrui e nella ricerca ostinata di una verità, ideata e scritta da Pablo Trincia, Debora Campanella e Paolo Negro, che ne cura anche la regia. Dalla voce alle immagini, perché come spiega Trincia, «sono due prodotti concepiti per essere uno, un percorso da fare ascoltando prima il podcast, per non rovinare il gioco dell’immaginazione, e poi guardando la serie per consolidare il tutto». 

 

Ma perché dopo il disastro di Rigopiano andare su un caso così misterioso di cronaca nera? «La storia di Denis mi ha catturato da subito, come un innamoramento. Anche perché ci dice purtroppo molto di come funziona la giustizia in Italia. Ci ritroviamo ancora una volta con la consapevolezza che tanto, troppo è affidato al caso, da chi in quel preciso momento prende in mano quello che è successo e quello che per qualcuno è sbrigativamente visto come un suicidio o un semplice incidente, un altro lo vede come un omicidio. È sempre tremendamente affascinante capitare in un caso di mala giustizia, di indagine non fatte, o fatte male, di professionisti che non lavorano come si deve». 

 

Ma per ricostruire quel che è accaduto al centrocampista del Cosenza, allo strazio di una famiglia che non si è mai voluta arrendere, c’è bisogno di un impegno profondo, di un lavoro a capo chino. «Ah, ma io sono un fanatico degli archivi», dice Trincia: «Impazzisco quando c'è tanto materiale da studiare, da scoprire. Sono stati sette mesi di studio vero perché alla fine, quando presenti il lavoro, devi essere certo che del caso sai veramente tutto, date, persone, verbali. A quella storia devi poter dare del “tu”».

 

E la conoscenza è la base di tutto, di ogni racconto. E chissà che possa essere anche utile, a un certo punto. «A volte è successo, per esempio con il podcast “Veleno”, che la narrazione aiutasse la ricerca della verità, perché accade che si scoprano cose nuove. Ma soprattutto credo che abbia un effetto curativo. Cioè dove la giustizia manca o non arriva, il raccontare la storia riporta se non altro una sorta di giustizia morale. E questo fa sempre tanto bene alle vittime, che si sentono viste, capite, raccontate, si sentono ascoltate. È come se la narrazione si trasformasse in una sorta di terapia collettiva e anche quando non riesci a scoprire davvero cose nuove, resta comunque questo effetto benefico». 

 

Il che a dire il vero è consolante considerando che sono giorni in cui la cronaca nera sta diventando un’ossessione prepotente che chiunque crede di essere in grado di raccontare, chissà perché. E qui Trincia si fa ancora più serio: «Purtroppo nel nostro mestiere c’è tanta gente che non studia e che però sente questa irrefrenabile esigenza di dover dire la propria opinione, di farsi sentire, di ricordare al mondo che esiste e pensa di doverlo fare attraverso le tragedie degli altri. Ma io dico, fallo ma almeno leggiti qualcosa, impara, meritatelo di raccontare una storia. Questo è un atteggiamento secondo me molto superficiale, stupido, ma è anche quello che poi inquina i casi, il giudizio, magari, a volte, le aule di tribunale». 

 

E a proposito di giudizio, quello di Trincia è sospeso. Per voce o per immagini, la porta resta aperta, il pubblico raccoglie gli elementi, e tira la fila. Certo deve essere difficile non lasciarsi andare al tifo da stadio. «In realtà è una cosa che a me viene molto facile – dice Trincia – perché quello che serve davvero è riportare i fatti in maniera corretta e avvincente. Non c’è bisogno di aggiungere lo zucchero sulla torta, perché ha già un sapore. Io lavoro sul rispetto, sulla libertà, faccio un passo indietro senza dover vendere il mio pensiero. Per arrivare dal pubblico e dirgli: “Scegli tu”».

 

Scegli di guardare alla verità verrebbe da dire. Come ha cercato, senza voltare mai lo sguardo Donata Bergamini, la sorella di Denis. Come ha fatto Fabio Anselmo, l’avvocato che ha spinto Trincia a raccontare quel cono d’ombra. Come hanno continuato in questi trentasei lunghissimi anni a fare tutti i protagonisti di questa tragica vicenda che ad arrendersi alle false evidenze non ci hanno mai pensato, sino a entrare nella serie Sky per costruire tassello per tassello una storia a cui manca la parola fine. «Tutto quello che sappiamo e di cui siamo certi è che non è stata detta la verità – conclude Pablo Trincia – E io ho una sola, irrealizzabile richiesta: chi sa, parli, dica finalmente cosa è successo. Questa è l'unica cosa che tutti vorremmo, dal 1989, il solo omaggio che potremmo fare a Denis».

 

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