Ambra, miele, fuoco. Sono nuances, meglio, sono sensazioni che, quando il filo di tungsteno è attraversato dalla corrente, si espandono oltre il vetro delle lampadine. A Filippo Cannata mancano quelle a incandescenza, superate ormai dai led, più economici, duttili e sostenibili. «Abbiamo perso l’atmosfera nelle nostre case. E non la recupereremo mai più». La nostalgia di quel calore sembra guidare il lavoro del lighting designer sannita, partito giovanissimo per gli Stati Uniti e poi tornato nel Beneventano, dove ha fondato il suo studio. Cannata è una sorta di filosofo della luce: «È un elemento necessario al benessere dell’uomo, per la vita. È da qui che parte il pensiero della luce, prima di affondare le sue radici nel mondo del design». Il ragionamento si apre alla fortuna di aver ereditato «dalla cultura mediterranea il gusto e la creatività che, uniti alla lungimiranza imprenditoriale, hanno permesso in Italia lo sviluppo di un prodotti di illuminazione straordinari». Plastiche, vetro di murano, qualità industriali, «tutto si è generato intorno a una lampadina a incandescenza». Poi c’è stata la fluorescenza e, infine, l’accelerazione tecnologica che ha spostato l’asse dal mondo analogico al digitale.

«L’epoca dei led ha cambiato il paradigma. Però non dobbiamo dimenticare il nostro legame con il fuoco, lo portiamo dentro ancestralmente. C’è una corrispondenza di benessere immediata: stare davanti al fuoco, per l’uomo, è terapeutico». Cannata impronta la sua attività, che va dall’illuminazione degli spazi pubblici alle residenze private, dai grattacieli ai luoghi dell’arte, alle persone e ai benefici che la luce comporta. «La miniaturizzazione ci ha fatto perdere - insiste - la poesia. Abbiamo eliminato il calore, la radiazione». Le case, nell’immaginario del designer, devono essere considerate come delle alcove per l’uomo. «Hanno un fortissimo impatto sul profilo psicologico di chi le vive, perché l’abitazione è la rappresentazione della protezione. L’uscio è un passaggio tra la dimensione dell’incertezza, il mondo esterno, e quello della certezza: ci sentiamo sicuri, ci sono affetti, memorie, ricordi. Arriva sera, accendiamo le luci è vorremmo che la casa sia un luogo di poesia». Cannata non riesce a separare la tecnica, appunto, dalla poesia: «Un fascio di luce che illumina una pianta, un quadro, una foto dei nostri cari. Questa è la casa. Comprare una lampada è un gesto straordinariamente importante per la nostra psicologia». Ed è così che si arriva al design, all’oggetto illuminante: «Se non ritroviamo in esso la poetica, mettiamo in casa un estraneo». Stesso argomento riguarda le città, che stanno dismettendo la luce calda delle lanterne in favore di led freddi. «Strade e piazze assomigliano sempre più a parcheggi». Per Cannata, l’urbanistica rischia di dimenticarsi della socialità dell’uomo. Invita al rispetto per la luce, soprattutto per quella naturale. La sua variabilità dovrebbe essere riprodotta nell’illuminazione elettrica. «Non possiamo parlare di benessere dei lavoratori se negli uffici, per otto ore, gli ambienti sono rischiarati dalla stessa luce ferma, monotona». Per far stare bene i dipendenti, «i corpi illuminanti dovrebbero seguire il percorso della luce naturale, cambiando di intensità e colore». Il progetto della Torre Unipol a Milano, per cui il lighting designer ha curato gli aspetti illuminotecnici, ha tra le sue peculiarità l’interazione tra luce naturale e quella artificiale, attraverso dei sensori che, in automatico, modificano quantità e colore della luce interna in base a ciò che avviene fuori dal grattacielo. La ricerca di una luce ancestrale, per Cannata, è evidentemente viziata dal suo trascorso professionale.

Era un ventenne quando, negli anni Ottanta, iniziò a lavorare come tecnico delle luci negli Stati Uniti. Prima a Cleveland, poi a New York, vicino ai responsabili luci dei musical di Broadway. «Conservo il culto della luce teatrale». Ontologicamente espressiva poiché compartecipa al racconto della scena. Riportare quella icasticità nell’architettura è più complesso. Ed è il motivo per cui il lighting designer si appella alla memoria della lampadina a incandescenza: «Riesco a corrompere i processi industriali canonici esplorando quell’effetto attraversi filtri, frequenze, profili del croma». La continua innovazione dei chip led, ammette non senza malinconia, potrebbe sopperire alla mancanza del tungsteno. «Ho fiducia che arriveremo presto a quelle sensazioni. Sono promettenti gli studi tarati su ambienti molto delicati, come sottomarini e navicelle spaziali, dove l’uomo è stressato in maniera particolare». Ecco, nel racconto che fa Cannata del suo mestiere emerge adesso dell’entusiasmo. Ricerca e sviluppo corrono nel campo dei led, diventati essenziali in termini di sostenibilità ambientale. Nell’architettura, inoltre, sta trovando maggiore condivisione il raffinamento delle frontiere dell’illuminazione come elemento di benessere. «La missione del mio studio è utilizzare la luce non per illuminare gli spazi, ma per migliorare la vita delle persone. È la guida. La curiosità, poi, mi spinge a testare le innovazioni stupefacenti nel settore del design della luce». Tuttavia, il richiamo al passato, alla natura, affiora sempre. E Cannata conclude ricordando il lavoro del vignaiolo: «È affascinante vederlo tagliare una foglia piuttosto che un’altra, durante la potatura. C’è una foglia che non serve alla luce, un’altra che protegge il grappolo». Cerca costantemente l’equilibrio per propiziare la vendemmia più fruttuosa. «Il contadino nasconde dentro di sé la perizia che gli ha insegnato l’esperienza, la vita. Ed è una competenza che dialoga con la luce». Il rispetto per il sole e l’aria che fende prima di raggiungerci con i suoi raggi. «Senza la saggezza della luce, non ci sarebbe un buon bicchiere di vino».