Gli ecologisti sostengono un metodo di pesca meno dannoso. Che però costa di più. Ma la grande distribuzione dice no

A Victoria, capitale delle Seychelles, è già tutto pronto: il contratto con l'armatore maldiviano e la scatoletta da 80 grammi con il marchio che assicura l'approvvigionamento con la pesca a canna. Soprattutto c'è la benedizione di Greenpeace. Ma l'eco-tonno non arriverà sulle tavole degli italiani. Almeno per ora.

Eppure la multinazionale thailandese Thai Union Frozen, attraverso Mw Brands, si sta giocando il tutto per tutto con la nuova linea di produzione, "appoggiata" da Greenpeace e Legambiente. Il gruppo asiatico (core business nei surgelati, un amministratore delegato italiano, Adolfo Valsecchi, quartier generale a Parigi, quattro stabilimenti tra Seychelles, Ghana, Portogallo e Francia) ha infatti davanti a sé un ostacolo che appare insormontabile: il rifiuto della grande distribuzione organizzata a piazzare sugli scaffali un tonno che costa dal 20 al 30 per cento in più rispetto al prodotto tradizionale. Una differenza di prezzo che traccia il confine tra pesca semiartigianale e pesca industriale. La prima, con il metodo pole and line, consente catture selettive di tonni maturi, attraverso la creazione di vortici nell'acqua con appositi manicotti e la successiva pesca con la canna. Tecnica che riduce il rischio di compromettere specie a rischio. La seconda, attraverso i Fad, sistemi galleggianti che attirano giovani esemplari di tonno, per biologi marini e ambientalisti fa scempio degli ecosistemi oceanici.

Ma i Fad dominano il mercato mondiale, che ogni anno chiede oltre 4 milioni di tonnellate di tonno. E la pesca pole and line per adesso è riuscita a conquistarsi solo un misero 4 per cento della produzione totale destinata all'industria. Cosa che nemmeno con il più sfacciato ottimismo potrebbe prefigurare, in un futuro prossimo, una copertura di almeno il 50 per cento del fabbisogno. "Eppure è una tecnica sostenibile anche sotto il profilo sociale", dice Giorgia Monti, responsabile della campagna mare di Greenpeace Italia. Già, perché se la pesca industriale consente di tenere ridotti all'osso gli equipaggi, la pesca pole and line richiede l'impiego di più manodopera. "Tanto che molti Paesi dell'oceano Pacifico e dell'oceano Indiano, dalle isole Salomone alle stesse Maldive, la stanno spingendo per sviluppare l'economia locale", aggiunge Monti.

Certo, anche la tutela dell'ambiente, di fatto, è un business. E Valsecchi, uno che ha passato tutta la sua vita ai vertici dell'industria alimentare, cerca di aprirsi un varco negli ipermercati cavalcando l'onda del consumo critico che in Paesi come la Gran Bretagna e l'Austria ha permesso ai produttori di tonno pole and line di conquistare buone posizioni di mercato. Non che sugli scaffali italiani manchino spazi per l'eco-scatoletta. Ma la percentuale del pescato con la canna, nelle confezioni tradizionali dei grandi marchi, non si avvicina mai nemmeno lontanamente al 100 per cento. La grande distribuzione respinge però l'accusa di insensibilità. Coop, per esempio. "Non è affatto una questione di prezzo, semmai di gusto", dice Claudio Mazzini, della direzione Qualità. "Ci viene proposto un tipo di tonno che è richiesto nei Paesi anglosassoni ma in Italia non ha mercato. Siamo tutti d'accordo: è necessario ripensare il sistema della pesca. Ma il mondo scientifico non è compatto. E l'incremento della quota di pescato con la canna esige una riconversione delle flotte".

Insomma, sembra una missione impossibile. Ma Valsecchi tira dritto e giura che entro il 2016 tutta la produzione di Mw Brands sarà sostenibile. Intanto però industria e distribuzione indicano sulle confezioni l'area di provenienza del pesce, non il metodo di pesca.