Tanto onnipresenti in tv quanto sempre più irrilevanti sul campo. In calo di credibilità presso la politica che li snobba e gli stessi lavoratori che gli preferiscono sigle minori più agguerrite e proteste estemporanee. Mancata la grande sfida di tutelare i precari, Cgil, Cisl e Uil appaiono sempre più in crisi d'identità
Una lenta agonia verso il precipizio dell’ininfluenza affligge i passi di quella che una volta, con fasto bismarckiano, veniva chiamata la “Triplice”. Cgil, Cisl e Uil, infatti, raccolgono nei dati certo non confortanti dell’ultimo sciopero generale terminato il 15 novembre l’evidenza di un fallimento largamente annunciato. Adesioni che in alcuni casi, come per il comparto degli enti locali a Napoli, non vanno oltre lo 0.57% e che a Roma, nei trasporti, non superano il 15%. Stessi numeri per i ferrovieri.
E a poca distanza dal flop, è il turno di Genova. Paralizzata per cinque giorni da una protesta selvaggia degli autisti dei bus definita “scintilla di un incendio che si propagherà a tutto il paese” da Andrea Gatto, improvvisato leader del sindacato autonomo Faisa Cisal, cavalcata con radar felino da Grillo, piombato tra qualche mugugno a gettare benzina sugli inferociti manifestanti, l’ex repubblica marinara ha aspettato invano una posizione di Camusso, Angeletti o Bonanni, pronunciatisi solo ad accordo raggiunto con dichiarazioni al vapore.
E dire che i tre chiacchierano sempre e più che volentieri con tivvù, radio e giornali: un’incontinenza verbale che, sulla sola carta stampata, gli fa cumulare nell’ultimo anno il ragguardevole record di cento interviste, (on il podio conquistato da Raffaele Bonanni, che da solo si è esibito in 51
performance, una a settimana).
I tre, però, ritrovata armonia e serenità coabitativa da qualche mese (segnale implicito di progressiva debolezza, segnala più di qualcuno), paiono sempre ben disposti a nuove lotte dai malcerti risultati e già nei prossimi giorni, si legge sul sito della Cisl, “riuniranno i loro esecutivi per fare una valutazione sulla mobilitazione della scorsa settimana” (il suddetto sciopero generale flop), nonché “per decidere nuove iniziative a sostegno dei cambiamenti chiesti al ddl stabilità”: disegno di legge che nel mentre marcia spedito nel suo iter parlamentare, con il fiato sul collo degli ammonimenti europei e lontanissimo dall’idea di un confronto dirimente con i Sindacati.
Si tratta di risultati che certo non fanno ben sperare per la prossima, grande sfida che li aspetta al varco: salvare i quasi certi 2500 esuberi previsti, secondo le notizie che circolano, dal nuovo piano industriale di Alitalia. In questa vicenda “sarà complicato per i Sindacati difendere posti di lavoro. C’è un problema di scarsa competitività e la mancanza di una prospettiva industriale di lungo periodo” dice Mimmo Carrieri, docente di sociologia economica alla Sapienza di Roma e studioso di relazioni industriali. Parallelo scetticismo circola tra i lavoratori di Alitalia, che preferiscono affidarsi alla forza dei più agili ed agguerriti sindacati di categoria, che in questo settore hanno dimostrato, già nel 2008, una forza inaspettata. Carrieri spezza però una lancia in favore di Cgil Cisl e Uil: “I grandi Sindacati potrebbero avere un ruolo importante nell’influenzare le strategie aziendali, ma sono carenti gli strumenti di partecipazione nella gestione dell’impresa”.
Con assai meno cautela nei lemmi, la Triplice e i suoi leader sono oggetto di scarsissima ammirazione presso la politica. Dopo la coltellata di Mario Monti, che da premier stroncò la concertazione come “la causa dell’attuale disoccupazione dei nostri figli”, sono riusciti nel miracolo di far concordare almeno su un punto Grillo e Renzi: il primo tuonò a 1000 watt “voglio uno Stato con le palle, eliminiamo i sindacati che sono una struttura vecchia come i partiti. Non c’è più bisogno dei sindacati, le aziende devono essere di chi lavora”; il secondo ha contrappuntato a mitraglia che “se i sindacati vogliono essere rappresentativi, devono fare una bella cura dimagrante” e ha aggiunto che “ci sono momenti in cui i sindacati sono un problema”. Parole che non sarebbero consone all’aplomb di Letta, il quale ha “solo” liquidato l’ultimo sciopero generale come “precipitoso”. E a buon intenditor.
Malati, vecchi e imbolsiti, vibrano unisoni e irritati come l’omino dell’ “allegro chirurgo” solo quando gli si contesta l’idea di “responsabilità”, sostantivo che – se li si vuol blandire – va sempre apposto alla sigla Cgil, Cisl e Uil. Talmente responsabili da aver abdicato ad affrontare negli ultimi anni la madre di tutte le battaglie: il proliferarsi del precariato. Talmente responsabili da accorgersene: “E’ vero – ha detto Susanna Camusso – il sindacato non è stato capace di costruire una strategia di inclusione del precariato. L’effetto è stato un crescente utilizzo delle forme non tipiche di lavoro, accompagnato da una contemporanea marginalizzazione sociale di questi lavoratori”.
Talmente responsabili, da farsi – sempre più, a giudicare dalle cronache – superare da micro organizzazioni, improvvisate ma agguerritissime, o dai temuti “autonomi” (Cobas e annessi), che meglio sembrano aggregare il disagio e il conflitto sociale. “C’è un aumento pulviscolare di sigle, una spinta all’autorappresentanza, anche se poi neanche i piccoli hanno la forza di mediare tra i tanti interessi sul campo delle decisioni pubbliche”, dice ancora Carrieri.
Un mal sottile che Maurizio Landini, leader Fiom non avvezzo ai giri di parole, trancia nell’idea che “o il sindacato cambia o è destinato a morire” e col machete affonda: “se è vero che sempre più cittadini non vanno a votare, è anche vero che la maggior parte dei lavoratori non è iscritto ad alcun sindacato”. Un pericolosissimo aggregato senza rappresentanza che, se si propagasse il “modello Genova”, rischierebbe di mettere a ferro e fuoco il Paese, senza alcun filtro da parte della pingue Triplice. La quale non esita, nei colloqui informali, a riconoscere che un problema di “tenuta della base” c’è: come se, dicendolo, si possa esorcizzare la questione dell’identità, esonerandosi comunque da responsabilità future.
E dire che si tratta di organismi, che ogni anno di euro ne incassano parecchi. “Contributi superiori a un milione di euro, tra tesseramenti, attività di servizi e contributi vari”, spiega la relazione introduttiva a una (ancora indiscussa) proposta di legge leghista, che vorrebbe introdurre la trasparenza nel bilancio dei sindacati. Un tema vecchio e insuperato, quello del mancato obbligo di bilanci pubblici, che, in tempi di verifiche e controlli sui singoli euro spesi da chiunque benefici di soldi dello Stato, rimbomba come un tuono quando non si ha l’ombrello. Anche perché, continua la relazione parlamentare, “è bene ricordare che oltre alla riscossione dei tesseramenti, i sindacati incassano risorse dallo Stato per i patronati e si servono di un ente pubblico, l’Inps, per riscuotere le quote di adesione anche dei pensionati e dai lavoratori autonomi”.
Un’opacità di gestione che viene in larga parte rimessa al “senso di responsabilità”, appunto, o alla buona volontà dei tesorieri e che pure rende il cavallo di battaglia di Angeletti di tagliare i costi della politica per ridurre le tasse sul lavoro una via di mezzo tra Robin Hood e la parabola evangelica della pagliuzza e della trave nell’occhio.
Non che i leader sindacali non lavorino, anzi. Cronisti e operatori sono straziati dagli estenuanti incontri, quasi sempre notturni, consumati tra le sedi di Confindustria, dei Ministeri, delle imprese o dei loro quartier generali. Con esito che quasi sempre risuona così: “posizioni distanti, ci dobbiamo aggiornare”, a retaggio di un vocabolario dell’attualità che stenta a farsi riconoscere, in mezzo alle decine di crisi industriali in corso.
Il 24 marzo 2002, quando la Cgil portò a Roma tre milioni di persone contro la modifica dell’articolo 18, è epoca lontana quasi come la stele di Rosetta; oggi, al più, bisogna aspettare il concertone del 1 maggio per riempire una piazza (dove le parole dei Sindacati vengono accolte con la stessa impazienza di chi sfrutta il volantino di una gita a pochi euro, dovendosi però sorbire la pubblicità delle pentole inox), e sempre che Ignazio Marino, in tempi di vacche magre, decida di spendere centinaia di milioni d’euro per gestire il tutto. D’altronde, il Sindacato i soldi, pure se li ha, non li fa vedere.