Berlusconi e Grillo tornano ai veri obiettivi delle rispettive campagne elettorali. Marciando divisi per colpire uniti Pier Luigi Bersani. Il Cavaliere con l'abbraccio 'mortale' di una grande coalizione, il blogger per restare all'opposizione e proseguire con la sua opera di demolizione del vecchio sistema

Sfilano di fronte a Giorgio Napolitano uno dopo l’altro, e nel palazzo del Quirinale, nella sala del Loggione che pure ne ha viste tante sembrano aggirarsi gli spettri del passato nobile della Repubblica: laddove c’era Fanfani presidente del Senato a fare da esploratore per conto del capo dello Stato oggi c’è Pietro Grasso (che infila una gaffe micidiale, dichiarandosi “disponibile” all’incarico, anzi, “pronto a tutto”, salvo poi ritirare la disponibilità), nell’auletta dei gruppi parlamentari dove il 28 febbraio 1978 Aldo Moro convinse i riluttantissimi deputati democristiani ad aprire a un governo con i comunisti in maggioranza, ieri c’era il neo-capogruppo del Pd Roberto Speranza che provava a tenere aperta la porta per Beppe Grillo. E al posto di Bettino Craxi c’è il nuovo ago della bilancia, Beppe Grillo, e il Ghino di Tacco di sempre, Silvio Berlusconi.

Beppe Grillo arriva nella dimora dei papi, dei re e dei presidenti alle ore 9.10 del primo mattino di primavera, si affaccia al suv guidato dal fedelissimo Walter, scherza con il corazziere che lo accoglie, fa segno con le dita: “quanto costa tutto questo?”, parcheggia nel cortile deserto immerso nel sole: è l’unica auto in sosta, di berline blu neanche l’ombra, arriveranno per un futuro governo, forse. Ha la cravatta scura, l’aplomb istituzionale del nuovo potere, di chi sa stare a tavola e vuole restarci. Sopra c’è il recinto di cronisti, fotografi e operatori stipato ai limiti della capienza, avrebbe detto Sandro Ciotti, cameramen impazziti, giornalisti giapponesi, dirette radiofoniche in ogni dove. I corazzieri fiammeggianti si sistemano alla porta dello studio del presidente, uno a destra uno a sinistra, alzano gli occhi al cielo, uno ha lo sguardo vagamente terrorizzato, passano i minuti, quasi un’ora, “lungo colloquio”, appuntiamo tutti, sarà anche franco? Spunta con telecamerina tascabile il reporter che segue 5 Stelle, marcato a uomo dagli addetti al cerimoniale.

Alle 10.33 si aprono le porte, fiato sospeso, flash che scattano, delusione. Al microfono vanno i capigruppo Vito Crimi e Roberta Lombardi, Grillo se n’è andato, i due arcigni come supplenti spediti a normalizzare una classe ribelle spiegano che hanno chiesto la presidenza del Consiglio per la lista che è arrivata prima alle elezioni, “indicheremo in seguito il nome del nostro candidato”, e l’articolo 92 della Costituzione che assegna al presidente questa facoltà è servito, elencano i loro venti punti, dall’abolizione dell’Imu ai tagli per i fondi pubblici dell’editoria, dall’abolizione di Equitalia al referendum sull’euro al politometro sui redditi dei politici degli ultimi venti anni. In caso di rifiuto annunciano il passaggio all’opposizione e chiedono le poltrone di presidenti del Copasir e della commissione di Vigilanza Rai.

Esce Grillo, entra Berlusconi. Il ruolo di capo dell’opposizione è già occupato, al Cavaliere resta quello di Statista. Chiede un governo Pd-Pdl per “tonificare” l’economia, come se fosse un problema di palestra, annuncia di aver visto un “piccolo spiraglio” in Europa “grazie all’intervento del commissario Tajani” (oddio, fosse lui il candidato premier di un governo tecnico?). Non vede problemi, dato che “in campagna elettorale si è visto che su “molte misure sono largamente condivise” (ah sì?). E vira su quello che più gli preme: che il Pd con il 30 per cento dei voti non può prendersi tutto, ha già incassato le presidenze di Camera e Senato, ora per Palazzo Chigi e Quirinale ci siamo in gioco anche noi.

Berlusconi e Grillo tornano ai veri obiettivi delle rispettive campagne elettorali. Nessuno dei due puntava davvero a vincere le elezioni. A Berlusconi bastava avere un bottino di consensi tale da impedire la vittoria piena del Pd e un ruolo determinante della lista Monti. Una quota di azioni abbastanza alta da sedersi al tavolo delle trattative da posizioni di forza. Anche Grillo non aveva nessuna intenzione di caricarsi di responsabilità di governo: voleva restare all’opposizione e proseguire con la sua opera di demolizione del vecchio sistema. Il successo imprevisto lo ha spiazzato e fatto sbandare, ma ora si torna al progetto iniziale. Da questo punto di vista Grillo e Berlusconi sono stati i due vincitori della campagna elettorale. Marciano divisi e colpiscono uniti Pier Luigi Bersani. Berlusconi con il sorriso, l’abbraccio e un’offerta di grande coalizione pelosa, Grillo spingendo il Pd al governissimo con il Pdl, la definitiva conferma che tutti gli altri partiti sono uguali. Tocca ora al soldato Bersani trovare la mossa del cavallo per divincolarsi dall’abbraccio e difendersi dall’assalto. Impresa non facile, i giaguari sono due, il più pericoloso per il futuro del Pd è quello che fa le fusa.