Adesso Lampedusa sogna una nuova vita Aspettando il Nobel per la Pace
Un anno fa la strage dei migranti: 366 morti. Oggi gli isolani provano a ripartire, tra mille difficoltà. E chiedono di non essere lasciati soli. Tra una settimana si saprà se Oslo ha accolto l'appello dell'Espresso (Foto di Giovanni Cocco per l'Espresso)
Com’è Lampedusa dietro Lampedusa? Come sono l’isola, il suo paese, la sua gente quando le notizie sfumano e le telecamere se ne vanno? Le fotografie di Giovanni Cocco raccolte in questo reportage raccontano i lampedusani nella loro vita quotidiana, al di fuori delle immagini di sbarchi e tragedie che hanno riempito i nostri occhi. Una pausa di silenzio in questi giorni in cui si commemorano i 366 profughi eritrei annegati nel naufragio del 3 ottobre 2013.
Nel frattempo, il bilancio totale da quel giovedì di un anno fa ha superato i 3.200 esuli morti nel Mediterraneo, più di 2500 da gennaio, 700 tra la fine di agosto e settembre. Mentre sono 130 mila gli uomini, le donne, i bambini arrivati vivi in Europa da inizio 2014. Vivi anche grazie all’operazione di soccorso “Mare nostrum” affidata dal governo italiano alla Marina militare. [[ge:rep-locali:espresso:285132368]] Profughi e soccorritori, vittime ed eroi del nostro tempo. Tra pochi giorni sapremo da Oslo il nome del vincitore del premio Nobel per la Pace. Unendosi all’appello lanciato da “l’Espresso”, l’accademica e scrittrice norvegese, Elisabeth Eide, aveva formalmente candidato la gente di Lampedusa: perché il Nobel «costituirebbe un riconoscimento per una piccola comunità la cui umana compassione è stata messa grandemente alla prova negli ultimi venti anni», ha scritto Elisabeth Eide nella lettera di candidatura.
Lampedusa come luogo d’incontro geografico e umano: la petizione de “l’Espresso” aveva raccolto oltre 55 mila firme da lettori e sostenitori in tutto il mondo. Tra loro, i registi Jean-Luc e Pierre Dardenne e il filosofo Jürgen Habermas: «Il conferimento nel 2012 del premio Nobel per la Pace all’Unione Europea poteva ancora essere inteso come una sorta di stimolo. Uno stimolo ad una soluzione costruttiva della crisi in cui oggi ci troviamo», ha scritto Habermas sulle pagine online de “l’Espresso”: «O anche come un’invocazione che esprimeva la nostra paura di un fallimento di una élite politica priva di coraggio e dalle vedute così ristrette da esser sul punto di giocarsi quella grande eredità su cui si basa l’unificazione stessa d’Europa. Conferire nel 2014 lo stesso premio per la Pace a Lampedusa equivale ad una scelta se possibile ancora più provocatoria. Nel senso specifico che oggi domina ben poca chiarezza nei veri destinatari a cui quel Premio andrebbe così conferito: e cioè, ai popoli d’Europa».
Il Comitato norvegese per il Nobel, che designa il vincitore del premio, ha da tempo selezionato la rosa ristretta di candidati tra i quali verrà annunciato il vincitore. Impenetrabile, come sempre, il riserbo dei cinque componenti del comitato nominati dallo Storting, il parlamento di Oslo. Nella rosa ristretta comunque ci sarebbe Lampedusa, ma anche papa Francesco.
Negli stessi giorni dell’annuncio del premio Nobel per la pace, potrebbe concludersi l’operazione “Mare nostrum”. E Lampedusa, in questi ultimi mesi in parte risparmiata dagli sbarchi, tornerà ad essere l’unico approdo più vicino al Nord Africa.
Il suo nome risuonerà ancora nella cronaca delle sofferenze, nella paura di nuove stragi e nelle parole di quanti in Italia e in Europa vorrebbero chiudere la porta in faccia ai profughi. Come se questo fosse possibile. Come se fosse la semplice soluzione e non la concausa dei barconi caricati all’inverosimile, della nuova ricchezza dei trafficanti, delle stragi in mare. Davanti a tutto questo, l’isola sarà di nuovo in prima linea.
Non è facile vivere a Lampedusa. Ma gli sbarchi c’entrano poco. La prima difficoltà è la distanza dal continente. La seconda è che quel continente è la Sicilia. Così il paese più a Sud d’Italia sconta le conseguenze della sua posizione geografica, ma anche di anni di disservizi regionali. L’assistenza sanitaria, prima di tutto. Una visita specialistica richiede un viaggio in aereo fino a Palermo oppure una notte in nave fino a Porto Empedocle.
Far nascere un bambino a Lampedusa impone trasferte di settimane in Sicilia. Soprattutto se si tratta di gravidanze difficili. Con l’aggiunta del costo di una stanza in affitto o dell’albergo, perché per una serie di visite o di ecografie di controllo nessun ospedale ricovera una futura mamma. La scuola, poi. Spesso bisogna emigrare già alle superiori. Con le relative spese di vitto e alloggio. Ma questo è normale se si è cresciuti su un’isola. I bambini delle elementari e i ragazzi delle medie rimangono invece a Lampedusa. E se la passano molto peggio. Le aule non bastano. Tempo fa i bambini sono stati mandati a fare lezione accanto alla pista dell’aeroporto, nei locali lasciati vuoti dall’Enac, l’ente dell’aviazione civile. Studiavano al suono degli aerei in decollo e all’odore del jet-wash, il getto di scarico che i motori lasciano dietro di sé.
«Alcuni bambini hanno sofferto mal di testa, facevano fatica a concentrarsi, probabilmente per i rumori e i gas», racconta Rossella Sferlazzo, una mamma di Lampedusa. Dopo quell’esperienza fallimentare, sono stati introdotti i turni pomeridiani: stessa aula, due classi. Una la mattina fino a metà giornata, l’altra il pomeriggio fino a sera, come nell’Italia anni Settanta alle prese con il boom demografico. «Il disagio provocato dai turni pomeridiani», continua la mamma, «riguardava la possibilità di svolgere attività extrascolastiche e i problemi di concentrazione e apprendimento, con relativo danno al profitto scolastico. Da aggiungere le difficoltà causate alle famiglie, nel far combaciare le esigenze lavorative al fatto di avere i bambini a casa la mattina».
Vivere a Lampedusa significa anche dover scrivere e-mail come questa, ricevuta in redazione l’inverno scorso: «Ieri pomeriggio, durante il turno pomeridiano della scuola elementare, hanno fatto le prove di carico con i bambini all’interno delle aule adiacenti, tra cui mio figlio. I bambini e le maestre sono rimasti terrorizzati in quanto nella classe accanto è crollato un pezzo di intonaco dal tetto. Abbiamo chiamato i carabinieri. Ci hanno anche riferito che, dopo che le tende si erano allagate, fra una settimana i nostri bambini andranno a fare lezione lì, sotto le tende». Per quest’anno la situazione è nuovamente cambiata: smontate le tende, aboliti i doppi turni, qualche aula è stata ristrutturata. Ma altri scolari e i loro insegnanti sono tornati a fare lezione nelle stanze accanto alla pista degli aerei. Con il rumore alle stelle e la puzza di cherosene.
Se Lampedusa è così, gli sbarchi non c’entrano. C’entrano l’Italia e i suoi problemi di bilancio. Costantino Baratta, 57 anni, muratore, uno dei soccorritori del 3 ottobre, l’aveva detto lo scorso inverno raccontando come andrebbe spesa l’eventuale vincita del premio Nobel: «Comincerei dalle scuole. Poi la sanità: bisogna portare a Lampedusa una Tac o una risonanza magnetica, perché ogni volta dobbiamo andare a farci visitare a Palermo. E aggiusterei tutte le strade, perché sono disastrate: parlo da muratore e da lampedusano che, per colpa delle strade, spende un sacco di soldi per riparare la macchina».
C’è un sentimento comune a tutti i lampedusani che soltanto raramente è stato tradito: la pazienza. La fotografia che si ricava dalla statistica è quella di un paese comunque in crescita, non certo danneggiato dal decennio di sbarchi. Anzi. In dieci anni gli abitanti sono aumentati dai 5.832 del 2002 ai 6.158 del 2012. Il reddito complessivo dichiarato è salito dai 25,491 milioni del 2005 ai 39,661 milioni del 2011. Una media di 18.362 euro l’anno a contribuente, contro i 13.861 di sei anni prima: anche se il numero di abitanti che dichiarano un reddito non supera il 35 per cento della popolazione complessiva (contro il 60 per cento dei comuni del Nord), abbassando così la media pro-capite a 6.500 euro (contro gli 11.600 euro di un analogo comune del Nord). Negli scorci silenziosi del paese, immersi nel vento che batte la costa, dentro le case semplici dei pescatori o tra le villette abusive costruite sulla scogliera: anche questa è Lampedusa.