Madri con figli portati via dallo stato islamico. Famiglie che hanno perso tutto e adesso sopravvivono solo grazie agli aiuti delle organizzazioni internazionali. La videocamera dell'Espresso tra i campi profughi al confine tra Siria, Giordania e Kurdistan iracheno. Dove si consuma il più grande disastro umanitario della nostra era
Il reportage de l'Espresso comincia da qui. Da Erbil, capoluogo di uno dei governatorati del Kurdistan iracheno, confinante con la provincia di Duhok, dove risiede la maggior parte dei rifugiati siriani in Iraq. Finora sono circa 9 milioni i siriani che hanno abbandonato le loro case dall'inizio della guerra civile, cominciata con le proteste nella città di Deraa nel marzo del 2011.
Oltre 6,5 milioni gli sfollati che hanno deciso, nonostante la guerra, di restare in Siria: quasi la metà è composta da bambini.
Un dramma senza fine, raccontato anche dai numeri: tra Libano, Giordania, Iraq, Turchia, Egitto e Nord Africa si stima che ci siano un milione e 654 mila bambini siriani che vivono come rifugiati. Nel solo Iraq, dall'inizio del 2014 si stima che siano 1,8 milioni le persone sfollate che hanno trovato rifugio nel Kurdistan iracheno. Di questi, 800 mila sono arrivati nella regione autonoma del Kurdistan iracheno tra giugno e agosto di quest'anno.
Alle telecamere de "l'Espresso",
Ned Colt, responsabile in Iraq per i rapporti con la stampa dell'
UNHCR (l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati), racconta gli effetti devastanti dell'avanzata dell'esercito dello Stato islamico. «Dall'inizio di agosto la situazione in Iraq è peggiora ulteriormente», spiega. «Una nuova offensiva dell'IS nella Regione autonoma del Kurdistan iracheno, rompendo le linee di difesa dei peshmerga curdi, ha permesso ai miliziani estremisti di penetrare rapidamente nel nord del paese. La conquista di alcune cittadine a maggioranza cristiana, tra cui Qaraqosh e Sinjar, ha provocato la fuga di 200 mila persone che, temendo un massacro per motivi religiosi, si sono riversate tra il governatorato di Erbil e la provincia di Duhok città che oramai conta una media di 4 profughi per ogni residente».
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Da Erbil, con tre auto dell'ONU, ci dirigiamo verso“Ainkawa mall”. Mall sta per centro commerciale. In realtà si tratta di un grosso edificio non ancora finito che dopo la violenta offensiva dell'IS di agosto è stato destinato ad ospitare le famiglie scappate dalle città di Qaraqosh, Cocho e Sinjar. Il centro commerciale Ainkawa è diventato un campo profughi. Una grande scala mobile costruita a metà domina il centro dell'edificio. La scala avrebbe dovuto collegare i tre piani di vetrine e negozi mai realizzati. Al loro posto, baracche di cartongesso dividono gli spazi, pochi metri quadrati, destinati ad ogni famiglia.
L’arredo dentro le baracche è semplice: materassi di gommapiuma appoggiati su teli di plastica, con il logo dell’UNHCR che, come ci racconta
Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ad agosto ha lanciato una delle più grandi operazioni umanitarie della sua storia: portare aiuti a mezzo milione di sfollati. «Noi siamo fortunati, abbiamo un tetto e un materasso per dormire» spiega Ashid, 48 anni, scappato alla furia del miliziani insieme ai suoi due figli. «La situazione di altri sfollati che vivono per strada o in baraccopoli costruite tra le vie e nei parchi di Erbil è ben più drammatica».
Lungo il corridoio, decine di bambini corrono in un ambiente spoglio e degradato. Entriamo in una stanza al terzo piano dove c'è una madre che chiede di parlare. «Quando i Da'ash, "i tagliatori di teste" sono arrivati a Qaraqosh hanno cominciato a spararci addosso, hanno tagliano l'energia elettrica e l'acqua a tutto il paese. Sono scesi dai loro fuoristrada Hummer vestiti di nero e armati fino ai denti. Hanno sfondato la porta di casa. Noi siamo cristiani e l'unica alternativa alla morte sembrava essere una immediata conversione all'Islam. Ci hanno tenuti prigionieri per 14 giorni. Poi, il 22 agosto ci hanno spostati nella scuola elementare. Ci hanno preso oro, soldi, vestiti e documenti e ci hanno fatto andare via. Prima di andare un uomo con la barba lunga ha preso mia figlia Cristina di 3 anni e 2 mesi. Ha detto che la bambina sarebbe resta con loro e che chiunque di noi avesse pronunciato una sola parola sarebbe stato ucciso all'istante.
Siamo partiti e Cristina, la mia bambina che non faceva altro che piangere, è rimasta con loro».
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Per accedere all'albergo dove abbiamo appuntamento con l'Ambasciatore italiano Massimo Marotti dobbiamo prima passare un controllo al metal detector. «Qui è la prassi», ci spiega Carmelo Ficarra, Capo dell'Ufficio Distaccato dell'Ambasciata italiana a Erbil, mentre un addetto alla sicurezza controlla le nostre telecamere. L'ambasciatore conferma che in alcune città controllate dal Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi stanno spuntano come funghi scuole dell'Is. «Ci sono giunte diverse testimonianze sull'esistenza di questi orfanotrofi anche a Mosul. Sostanzialmente si tratta di istituti dove bambini strappati con la violenza ai loro genitori vengono tenuti sotto sorveglianza e in qualche modo indottrinati», racconta a "l'Espresso" l'ambasciatore. «Gli spostamenti all'interno del paese sono molto difficili. L'autostrada che collega Erbil a Baghdad è controllata da diversi gruppi di ribelli. L'IS è solo quello più organizzato: in Iraq sono molti i gruppi armati che si dividono determinate aree del territorio pianificando furti omicidi e rapimenti. Nella capitale si viaggia alla media di un attentato al giorno».
Mohamed Salman, professore all'Università Salahaddin di Erbil, ha analizzato le motivazioni che hanno spinto gli sfollati a lasciare le loro case: la paura di violenza fisica è il motivo per cui il 25 per cento dei profughi è scappato di casa, un altro 25 per cento temeva di diventare uno scudo umano, la paura dello stupro è al 24 per cento, la paura del servizio militare forzato al 22. Disperazione, morte, fame, feriti ovunque: non è un caso che l'Alto commissario delle Nazioni Unite Antònio Guterres abbia definito la vicenda siriana e irachena come «la più grande emergenza umanitaria della nostra era».