I democratici si stracciavano le vesti quando Beppe Grillo proponeva di abolire l’articolo della Costituzione che tutela la libertà di coscienza dei parlamentari. Ora che il dissenso ce l’hanno in casa vogliono fare lo stesso. Anzi, peggio

Quando, un anno fa, Beppe Grillo teorizzò il vincolo di mandato parlamentare per tenere in riga i suoi dissidenti sul dialogo con Bersani, nel Pd fu tutto un (giusto) stracciarsi di vesti in nome dell’articolo 67 della Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Anna Finocchiaro propose persino (giustamente) una legge per mettere fuorilegge partiti e movimenti privi delle regole basilari di democrazia interna.

Ora che il dissenso colpisce il Pd, e non su dettagli trascurabili ma sulla riforma della Costituzione, è già tutto dimenticato. A teorizzare il vincolo di mandato - senza neppure cambiare, come proponeva Grillo, l’art. 67 - sono proprio gli ex bersaniani convertiti al renzismo. Aveva iniziato il capo dei senatori Luigi Zanda, giustificando financo la cacciata del dissidente Corradino Mineo dalla commissione Affari costituzionali e la sua sostituzione con Zanda medesimo. Tra gli applausi della presidente Finocchiaro e della ministra Boschi, che parlò – restando seria - di “decisione democratica”. Se le espulsioni dei 5Stelle si chiamano (giustamente) epurazioni o purghe, insomma autoritarismo, quelle del Pd sono innocenti sostituzioni o avvicendamenti, insomma democrazia.

Quando poi la "riforma" del Senato è approdata in aula, il pressing sui dissidenti è ripartito. Berlusconi ha invitato gentilmente i suoi, nell’indifferenza generale, a “obbedire o andarsene”. Renzi li ha insultati con le consuete carinerie (“gufi”, “rosiconi”, “venali”, “frenatori”, “sabotatori”, “conservatori”), paragonandoli addirittura a chi “mette i sassi sui binari dei treni”. La ministra Boschi li ha chiamati “bugiardi” in preda ad “allucinazioni”. E la vicesegretaria Debora Serracchiani, che già aveva intimidito il presidente Piero Grasso per qualche pallida critica (“si ricordi chi l’ha messo lì”), ha sfoderato una strepitosa rilettura dell’art. 67 che non si sentiva dai tempi del Pci stalinista e del centralismo democratico: «Non credo che ci sia una questione di coscienza se si tratta di fare una riforma costituzionale che riguarda il Senato. Quando il partito prevede una linea, quella linea dev’essere comunque rispettata». Altrimenti, raus .

Il vicecapogruppo Giorgio Tonini ha aggiunto minaccioso che il voto a maggioranza dell’assemblea dei senatori «è impegnativo per tutti: perchè esiste l’art. 67, ma esiste anche la coerenza dei comportamenti e ognuno si assumerà le sue responsabilità: chi accusa Renzi di portare avanti un progetto autoritario farà i conti con le sue parole». Colto col sorcio in bocca dal costituzionalista Alessandro Pace su “Repubblica”, Tonini ha spiegato: «Il regolamento del gruppo parlamentare del Pd stabilisce che “su questioni che riguardano i principi fondamentali della Costituzione...i singoli senatori possono votare in modo difforme dalle deliberazioni dell’assemblea del gruppo”» ma «tra i principi fondamentali della Costituzione non rientrano certo le modalità di elezione del Senato».

Cioè: il governo impone al Parlamento la degradazione del Senato a un ente inutile, sprovvisto del potere legislativo ordinario e soprattutto non più elettivo, e questo non intacca i principi fondamentali della Carta? Non solo, l’art.2 del Regolamento del gruppo del Pd del Senato recita: «Il Gruppo riconosce e valorizza il pluralismo interno nella convinzione che il continuo confronto tra ispirazioni diverse sia fattore di arricchimento del comune progetto politico... Il Gruppo riconosce e garantisce la libertà di coscienza dei senatori».

Come può la libertà di coscienza non valere sulla cruciale questione se i cittadini debbano ancora eleggere i senatori o se questi debbano essere nominati dai consigli regionali, cioè della casta partitocratica più malfamata e inquisita d’Italia? I “riformatori” parlano graziosamente di “elezione di secondo grado”, secondo la fortunata formula inaugurata nel 1976 da Licio Gelli nel suo Piano di Rinascita Democratica. Ma qui l’unica cosa di secondo grado, anzi al quadrato, è l’autoritarismo: una riforma autoritaria imposta con metodi autoritari.