Politici corrotti, affaristi, criminalità organizzata. Ma anche le multinazionali che eludono il fisco. Sono i colpevoli di una emorraggia che priva i paesi in via di sviluppo di 947 miliardi di dollari l'anno. Dieci volte la somma garantita dagli aiuti internazionali

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Per ogni dollaro di aiuto allo sviluppo, se ne portano via dieci evasione fiscale, corruzione e criminalità organizzata. Lo calcola un rapporto sui “trasferimenti illeciti di capitali” provenienti da 150 paesi “in via di sviluppo”. Una categoria eterogenea dove Niger, Somalia e Congo stanno accanto a Cina, Russia o Brasile. Tra i colpevoli ci sono politici corrotti e affaristi senza scrupoli, africani e asiatici, europei e nordamericani. Ma anche marchi globali, finiti sotto inchiesta come Apple, Starbucks, Amazon o Google negli Stati Uniti o in Gran Bretagna. Aziende che dichiarano i profitti dove fa più comodo e non nei paesi dove svolgono le loro attività e dovrebbero pagare le tasse.

La geografia globale di questa emorragia che sottrae ai governi risorse essenziali per migliorare le condizioni di vita di milioni di persone è delineata nel rapporto 2013 di Global Financial Integrity, un centro studi con sede a Washington coordinato da ex ricercatori del Fondo monetario internazionale. Le stime sono fondate sulla rilevazione delle discrepanze nei dati sui flussi commerciali e i capitali in entrata e in uscita pubblicati dai singoli paesi. E descrivono una realtà impressionante.

Nel 2011, l’ultimo anno per il quale i dati sono disponibili, elusione fiscale delle multinazionali, illeciti di affaristi e politici o traffici di organizzazioni criminali hanno contribuito al trasferimento illegale di quasi 947 miliardi di dollari. Circa 115 in più rispetto al 2010 e addirittura 677 rispetto al 2002, quando sono cominciate le rilevazioni. “I flussi sono cresciuti in media del 10% l’anno – sottolinea Raymond Baker, presidente di Global Financial Integrity – ma tra il 2010 e il 2011 l’incremento è stato del 14%”.

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Secondo gli autori del rapporto, “i trasferimenti illeciti costituiscono il problema più grave per i poveri del mondo e stanno aumentando a un ritmo terrificante”.

Un confronto aiuta a capire. Nel 2011 l’assistenza dei governi ricchi ai paesi in via di sviluppo è stata equivalente a 94 miliardi di dollari: meno di un decimo della somma di denaro che nell’arco dell’anno è stata sottratta a quegli stessi paesi attraverso operazioni illecite. Nel complesso, tra il 2002 e il 2011, il valore dei capitali trasferiti in modo illecito ha superato i 5900 miliardi di dollari. E si tratta di una stima per difetto. “Buona parte dei ricavi generati dal contrabbando di droga, dalla tratta di esseri umani e da altri tipi di attività criminali – evidenziano gli esperti – sfuggono alle statistiche perché le transazioni sono effettuate in contanti”.

In termini assoluti, nell'ultimo decennio il paese più penalizzato è stata la Cina. Dalla Repubblica popolare che fu di Mao Zedong se ne sono andati via di nascosto 1080 miliardi di dollari. Spesso passando per Hong Kong, paradiso fiscale asiatico; di sicuro compromettendo i risultati della lotta alla povertà in un paese dove, secondo le statistiche della Banca mondiale, 128 milioni di persone continuano a vivere con meno dell’equivalente di un dollaro e 80 centesimi al giorno. Al secondo posto, dietro la Cina, c’è la Russia. Un’altra potenza emergente (ed ex comunista), dove tra il 2002 e il 2011 oligarchi, mafie e funzionari governativi hanno esportato sottobanco 880 miliardi di dollari.

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Ma se si considera il rapporto tra i trasferimenti illeciti e la ricchezza nazionale la classifica si rovescia. E la maglia nera finisce, amara ironia, al continente nero. A sud del Sahara con i flussi illegali se ne va il 5,7% del Prodotto interno lordo, mentre a livello globale la media è del 4%. La perdita di risorse è tale che, anche mettendo sul piatto aiuti, investimenti stranieri, importazioni ed esportazioni, l’Africa resta un creditore netto rispetto al resto del mondo. In altre parole, dà più di quanto non riceva.

“I quasi mille miliardi di dollari sottratti illegalmente ai paesi in via di sviluppo nel 2011 avrebbero potuto essere investiti localmente in attività imprenditoriali, sanità, istruzione o infrastrutture; sarebbero potuti servire a far uscire da una condizione di povertà milioni di persone”. Brian LeBlanc, ricercatore di Global Financial Integrity, la vede così. E con i suoi colleghi ricostruisce i percorsi e gli strumenti dell’illegalità, individua responsabili, avanza proposte. Uno dei problemi principali è la difficoltà a identificare i reali proprietari-beneficiari delle società di comodo. Poi ci sono il segreto sui conti bancari, i paradisi fiscali, le nuove tecniche di riciclaggio e l’assenza di dati paese per paese sulle vendite, i profitti e le tasse pagate dalle multinazionali.

Problemi, tutti, rispetto ai quali le responsabilità sono trasversali e condivise. Lo ha confermato, a dicembre, un rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Nello studio si sottolinea che dei 34 paesi membri dell’organismo ben 27, Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Francia compresi, “non rispettano” o “rispettano solo in parte” le raccomandazioni per la trasparenza degli assetti azionari delle società fissate dal gruppo d’azione finanziaria internazionale.

Nonostante gli impegni assunti in via di principio, insomma, i governanti del mondo ricco fanno poco per combattere gli abusi. “È vero che i dirigenti dei paesi in via di sviluppo hanno le proprie colpe – concorda LeBlanc – ma le condividono con i destinatari dei flussi illeciti: su tutti Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e paradisi fiscali offshore”.

Il problema è aggravato dai giganti del capitalismo globale, in grado di spostare con un clic centinaia di milioni di dollari da un paese all’altro. Secondo gli esperti di Global Financial Integrity, “le inchieste giudiziarie sulle pratiche di elusione di Apple, Starbucks, Amazon o Google hanno confermato che le multinazionali stanno utilizzando sistemi innovativi per trasferire i profitti dai paesi dove sono stati generati in paradisi fiscali dove non si produce nulla”.

Gli esempi sono tanti, le cifre a sei o nove zeri. Nel rapporto si cita il caso di Sabmiller, colosso della birra con sede a Rotterdam e sussidiarie sparse tra India, Ghana e Sudafrica. Triangolazioni con Olanda, Svizzera e Isole Mauritius priverebbero i governi di 33 milioni di dollari l’anno, una somma sufficiente per garantire il diritto allo studio di 250.000 bambini. Sospetti gravi pesano anche su Glencore, una multinazionale del rame con sede legale nell’isola di Jersey, paradiso fiscale della Manica dipendente dalla corona britannica. L’accusa è gonfiare i costi di produzione ed esportare a prezzi di saldo in Svizzera per nascondere i profitti e defraudare il fisco dello Zambia. Paese che avrebbe perso 124 milioni di dollari in un anno solo: più di quanto ricevuto da Londra sotto forma di aiuti allo sviluppo.

Sciogliere il nodo è difficile, forse impossibile. Ma tentare si deve. Le proposte sul tavolo sono diverse. Una delle più importanti, ma difficili da applicare, mira a costringere le multinazionali a dichiarare vendite, profitti e tasse pagate paese per paese. Allo studio ci sono anche interventi che consentano di svelare la proprietà effettiva di società di comodo, trust o fondazioni. Un primo passo lo ha compiuto proprio il primo ministro britannico, David Cameron, annunciando la creazione di un registro pubblico con informazioni sui reali beneficiari delle società con sede legale a Jersey, alle Cayman, alle Bermuda e negli altri paradisi d’oltremare.

Gli esperti di Global Financial Integrity chiedono però anche l’abolizione del segreto sui conti bancari e i depositi di titoli, perlomeno dietro richiesta ad hoc delle autorità. E si preparano a un’altra battaglia, sullo scambio delle informazioni di carattere fiscale. I paesi del G20 si sono impegnati a condividerle in modo automatico entro il 2015. Per questo hanno costituito un comitato composto dai loro rappresentanti che sta lavorando a un’apposita convenzione. Decisione incoraggiante, sottolinea Baker, “ma che per dare risultati soddisfacenti dovrebbe coinvolgere anche i paesi in via di sviluppo che del G20 non fanno parte”.