Sembra quasi di ripercorrere la storia e la leggenda di Alessandro Magno che, partito dall’Epiro con un piccolo esercito e affascinato dal mito della guerra di Troia e dal mito di Achille, conquistò le terre che arrivano fino al Caspio e all’Indostan e alle sorgenti del Nilo a sud, alla foce del Tigri e dell’Eufrate e all’Egeo e al deserto libico.
Nessun impero raggiunse quell’estensione, quella varietà di religioni, di linguaggi, di culture; Roma soltanto li raggiunse e in parte li superò ma fu Alessandro ad aprire la strada. L’ellenismo nasce con lui e costituisce una parte intangibile della cultura occidentale.
In tempi moderni qualche cosa di simile fu l’impero inglese che cedette il posto durante la seconda guerra mondiale all’America e di questo oggi dobbiamo occuparci.
Barack Obama ha cambiato la politica estera del suo Paese da qualche mese: è accaduto con la guerra dell’Ucraina e con le sanguinose imprese di guerra e di terrorismo del Califfato islamico.
È strano che quei due eventi siano avvenuti quasi contemporaneamente, pur senza avere tra loro alcuna connessione. Se ad essi aggiungete anche il feroce scontro tra Hamas e Israele, l’emergere in Iran d’un interesse verso l’America e la posizione “double face” della Siria di Assad e della Turchia di Erdogan, avrete un quadro completo dei rivolgimenti in corso nella metà del mondo che sta a sud-ovest del Caspio e ad ovest dell’India.
Gli Stati Uniti da diversi anni, che coincidono più o meno con il primo mandato presidenziale di Obama, avevano concentrato la loro attenzione sullo scacchiere del Pacifico. Il mondo ormai è multipolare, l’impero mondiale che gli americani pensavano d’aver realizzato dopo il dissolversi dell’Unione Sovietica, era durato pochi anni. Era nata come potenza mondiale la nuova Cina e contemporaneamente l’India, l’Indonesia, il Brasile, il Sudafrica.
Il Pacifico continuava ad essere una parte di mondo che richiedeva la presenza americana, ma gli sconvolgimenti in Mesopotamia, nell’area mediterranea e nell’Europa collocata tra l’Elba e il Don richiedono una nuova attenzione. Sicché, proprio verso la fine del suo ultimo mandato, Obama ha rilanciato la presenza americana nel nostro continente.
Devo dire che questo fenomeno non mi pare sia stato adeguatamente segnalato: il presidente Usa aveva negli anni del suo secondo mandato perso gran parte del suo rigore politico. Lo smalto dei suoi primi mesi alla Casa Bianca, le speranze che aveva acceso nell’America povera, nelle donne, nei giovani, nelle minoranze costituite dai nuovi immigrati e in gran parte degli stessi popoli europei e africani era scomparso. Il Partito repubblicano aveva conquistato la maggioranza di una delle Camere, la politica interna zoppicava, quella estera non richiamava particolare attenzione nell’opinione pubblica americana. Ma di colpo la situazione è cambiata. Se ci domandiamo le ragioni di questa rinnovata attenzione nei confronti di Obama che l’opinione pubblica americana e mondiale gli sta riservando, probabilmente deriva dal rilancio che egli ha fatto degli interessi e dei valori che le insidie di Putin e le gesta terroristiche militari del Califfato mettono a serio rischio.
La Russia di Putin è già una grande potenza ma non ha ancora raggiunto la forza politica e ideologica dell’Unione Sovietica staliniana. Quella ideologica è esclusa e lo stesso Putin si guarderebbe bene dal riproporla. Ma quella politica ha un senso e una strategia che si fa sentire in particolare in Ucraina, nella Russia bianca, nei Paesi baltici, in Bulgaria. Gli altri Paesi che un tempo appartenevano all’Urss sono esclusi ma questi che abbiamo indicato in teoria sono aggregabili. Non per fare la guerra ma per partecipare a pieno titolo al novero dei più forti della società globale.
Obama ha proposto che i valori dell’Occidente nati e radicati ancora in Europa ed estesi fin dall’inizio all’America democratica non possono rischiare d’essere indeboliti e rimossi ed è per questo che ha rilanciato come strumento indispensabile la Nato che è il punto di unione istituzionale e organizzativa tra gli Usa e le nazioni dell’Europa. Se noi fossimo già allo stadio degli Stati Uniti d’Europa l’intesa sarebbe ancora più valida e la partnership ancora più solida. Ma per ora dobbiamo accontentarci della situazione di fatto e attraverso la Nato seguire questa politica, tesa a contenere e trovare nuovi e positivi equilibri con una Russia che resti nei suoi ormai non valicabili confini.
Il caso del califfato islamico è diverso. Lì c’è la ricerca non solo di una dottrina islamica radicale fino all’orrore ma di un territorio, cioè di uno Stato. Teocratico naturalmente, ma che scelga fin dall’inizio e mai abbandoni il metodo della guerra e del terrorismo. Alle spalle di questo disegno c’è l’intenzione di ripetere l’antica ed eroica marcia che gli arabi intrapresero un secolo dopo la scomparsa di Maometto e che li condusse all’occupazione della costa mediterranea fino al Marocco e all’invasione della Spagna andalusa con la costituzione degli emirati di Siviglia, Cordova, Granada e Malaga. Qui Obama dovrà agire con la forza, qui purtroppo lo scontro armato è indispensabile e temo che non possa limitarsi ai droni e ai cacciabombardieri. Obama certamente ne è consapevole e invoca infatti l’intervento delle potenze regionali, dalla Turchia all’Iran, dai sauditi ai curdi. Sa bene che non è facile ottenerlo e che comunque ciascuna di queste potenze ha una serie di secondi fini tutt’altro che coincidenti gli uni con gli altri. È comunque un rischio da affrontare e che Obama ha pochi mesi per avviare su basi che consentano al suo successore di proseguire. La partita è molto difficile e l’obiettivo è quello di risvegliare un Islam moderato che difenda i propri valori tra i quali la pace, stando almeno alle pagine del Corano e dei suoi più autorevoli interpreti, è il principale.
Papa Francesco vede anche lui l’Islam da questo punto di vista e la sua azione è sicuramente di notevole portata.