Il leader dei metalmeccanici spiega la sua idea per una mobilitazione del 18 ottobre: tutti, precari e "garantiti", a svolgere lavori utili. E spiega cosa significa per lui essere di sinistra: "Stare dalla parte del lavoro, credere nella giustizia sociale e applicare la nostra Costituzione"

maurizio landini
Maurizio Landini è esattamente come te lo aspetti. Sicuro delle proprie idee, preparato a ogni tipo di domanda, concreto nelle risposte, incarnato nel ruolo di sindacalista puro. Rispetto alla ruvidezza della sua immagine televisiva, resa familiare dalla partecipazione a innumerevoli talk-show, rivela però qualche morbidezza e una inconsueta disponibilità a toccare anche corde sentimentali.

Lo incontriamo nel suo ufficio romano di segretario della Federazione metalmeccanici italiani ed è come fare un tuffo nel Novecento. I mobili solidi e anonimi, il televisore a tubo catodico, i quadri alle pareti, sono gli stessi dei dirigenti che lo hanno preceduto nei decenni passati. Ma lui, che a quell’arredamento ha aggiunto anche un vecchio poster di Troisi, sembra intenzionato a tenere i piedi ben saldi nel nuovo secolo.

Così ci parla del momento difficile, dell’inaspettato attacco al lavoro da parte del partito della sinistra, della sua determinazione a respingerlo rinnovando forme di lotta e inventandone altre adeguate ai tempi. Come quella che chiama “sciopero a rovescio”, una mobilitazione multipla che metta insieme scioperanti reali, precari, cassaintegrati e tutti quelli che un lavoro non ce l’hanno. Insieme potranno dare dimostrazioni pratiche di “manutenzione del Paese” attraverso lavori utili e urgenti che aspettano da anni. Un’idea rooseveltiana che potrebbe spiazzare l’innovatore per antonomasia Matteo Renzi, con il quale fino a qualche settimana fa sembrava aver trovato una curiosa sintonia.

Maurizio Landini, quanto è forte la sua delusione su Renzi?
«Non avevo illusioni e quindi non provo delusioni».

Eppure vi chiamavano “la strana coppia”: incontri, accordi, dichiarazioni comuni.
«Guardi, io sono segretario di un sindacato che rappresenta un pezzo decisivo dell’industria italiana. Negli anni scorsi ho incontrato anche Letta e Monti, ma la cosa non ha fatto notizia. Inoltre Renzi, votato alle primarie da milioni di persone per la maggioranza non iscritte al Pd, diceva di voler cambiare tutto. Per me era una necessità vedere che cosa proponeva per uscire dalla crisi».

Si aspettava che il cambiamento prendesse questo verso?
«Se uno vuole cambiare il Paese insieme a Sacconi e Alfano, subendo anche i diktat dell’Europa, è così che va a finire. Di suo Renzi ci aggiunge un modello americano che ritiene inutili i sindacati e poco importante il Parlamento. Lo dimostra ogni sua mossa, compresa questa ultima e insensata di chiedere lo scalpo dell’articolo 18. Vuole sapere qual è lo scopo di tutto ciò?»

Matteo Renzi e Maurizio Landini


Quale?
«Far sparire i diritti dall’orizzonte di tutti. È incredibile che per promettere diritti a qualcuno si tolgano ad altri. Con l’abolizione dei contratti nazionali, gli operai saranno messi in competizione gli uni contro gli altri, mentre i nuovi occupati non avranno nulla».

Se davvero finirà così, quante responsabilità avrà avuto il sindacato?
«Con me sfonda una porta aperta. Ho sempre pensato che la forza di Renzi sta negli errori e nelle cose non fatte dalla politica e dal sindacato. Ma ora è necessaria una visione che includa tutti, occupati e no, e dia un nuovo senso alla comunità dei lavoratori. Altrimenti il conflitto sociale che esploderà sarà ingestibile».

Lei come ci si sta preparando?
«Con la proposta del lavoro come bene comune. Accanto allo sciopero tradizionale, e magari in contemporanea, chiameremo a fare opere socialmente utili tutti quelli che sono interessati al lavoro: disoccupati, cassaintegrati, ragazzi senza una prospettiva».

Faccia qualche esempio?
«Molte idee sono ancora in cantiere, ma verranno definite prima della manifestazione del 18 ottobre. Potremo dare una mano alle cooperative che gestiscono i beni confiscati alle mafie, fare controlli sull’assetto idrogeologico e interventi sugli argini a rischio, organizzare la vigilanza nei territori occupati dalla criminalità, mettere insieme squadre per la pulizia delle città e costruire in quelle d’arte eventi che creino un ponte tra lavoro e cultura. Andremo anche all’Aquila, luogo simbolo dell’abbandono delle istituzioni, con un progetto per ricostruire davvero la città a misura d’uomo».

Manutenzione del Paese”, “Sciopero a rovescio” sono slogan efficaci. Pensa che funzioneranno?
«Credo di sì, ricordano a tutti la necessità del lavoro. Del resto per me non è una novità. Vengo da una città, Reggio Emilia, dove già negli anni Cinquanta un’azienda, la Reggiane, che aveva 12 mila addetti, fu occupata per un anno dai dipendenti. Oltre a costruire da soli dei trattori, gli operai si inventarono, appunto, lo “sciopero a rovescio” e riassettarono gli argini del Po».

Susanna Camusso è d’accordo su questa iniziativa?
«Ancora non lo sa e non ho la più pallida idea di che cosa ne penserà. Ma non si può non vedere che è un modo per fronteggiare una situazione drammatica, ricostruire la solidarietà tra persone, ridare identità a tanti cassaintegrati schiacciati dall’inattività fino al suicidio, richiamare i disillusi nel sindacato».

Susanna Camusso e Maurizio Landini


Parla come se fosse il segretario di un quarto sindacato e non di un settore della Cgil.
«Ma che dice!»

Che cosa significa per lei, oggi, essere di sinistra?
«Stare dalla parte del lavoro, credere nella giustizia sociale e applicare pienamente i principi della nostra Costituzione, anzi sventolarli in Europa. I vecchi riferimenti sono saltati. Come fai a parlare di uguaglianza delle opportunità a un ragazzo che non trova lavoro e che vede il suo amico trovarlo perché conosce qualcuno? Come fai a dire “Proletari di tutto il mondo unitevi” a un operaio italiano e a uno polacco messi in competizione dalla Fiat? Tutto va ripensato».

Comunque è stato a lungo comunista.
«Sono stato iscritto al Pci, al Pds, ai Ds mai al Pd. Però il mio impegno è stato sempre nel sindacato, anche perché il disincanto per il partito era cominciato molto prima, quando nella cooperativa di comunisti che mi dava lavoro mi facevano fare compiti in contraddizione con i principi dichiarati. Io lavoro da quando avevo 14 anni e ho visto molte cose di questo genere».

È stato duro cominciare a lavorare così presto?
«Abbastanza, ma a un certo punto mio padre non è più riuscito a mantenere la famiglia e mi ha mandato a fare il saldatore. Qualche volta mi rammarico di non aver avuto un’educazione scolastica, ma poi ricordo quei tanti operai, impiegati e delegati che mi hanno dato una formazione sindacale e umana. Uno di loro un giorno mi disse: “Se tu fai il delegato di un’azienda, devi saperne più del presidente, sennò non conti nulla”. Da allora non mi avvicino a una fabbrica se non ne ho studiato a fondo il bilancio. E penso che mio padre abbia fatto, allora, la scelta giusta».

Lei ormai è molto noto, ma del suo privato non si sa quasi nulla. Come mai?
«Perché sono un sindacalista e questo dovrebbe bastare. Ma, se ci tiene, le racconto che la mia era una famiglia numerosa e unita. Ho quattro fratelli, il più vecchio è stato anche lui delegato sindacale, il più giovane è un precario. In mezzo ci sono due gemelle, una gestisce un bar e l’altra lavora in un supermercato. Mio padre, che era per me un grande riferimento, è morto pochi mesi fa».

Ci parli di lui.
«Aveva fatto la resistenza in sella a un cavallo bianco. Almeno questa era l’immagine che ne avevo da bambino quando ci raccontava la sua storia di staffetta partigiana nelle montagne emiliane. Era allora, ed è rimasto per tutta la vita, un comunista».

Un padre dalla parte dei giusti su un cavallo bianco. Questa sì che è un’educazione romantica alla politica.
«Forse, ma c’era anche l’esempio del suo lavoro duro e dignitoso di stradino. Quando fu assunto dalla Provincia e divenne responsabile di un tratto di strada, cominciammo a scendere dal monte dove ero nato, arrivando prima in collina e poi giù fino a valle. Fu la nostra emancipazione».

Che infanzia ha avuto tra quei monti e la valle?
«Quella classica dell’Emilia dell’epoca, divisa tra l’oratorio e la sezione del Pci. Due modi di intrattenerci, in fondo non troppo distanti. Quando facevo catechismo, il mio insegnante era un prete operaio che lavorava in fabbrica. Non sono un credente ma da lui e da mia madre, cattolica, mi è rimasta la spinta a stare sempre dalla parte dei più deboli».

Poi c’è una moglie che nessuno ha mai visto.
«E che nessuno, fuori da Reggio, vedrà. Non mi chieda il suo nome perché non glielo direi. Le racconto soltanto che l’ho conosciuta che avevo 19 anni, che stiamo insieme da quasi trenta e che è un’impiegata comunale».

Quindi ha avuto gli 80 euro?
«Eh, sì».

Che cosa ne pensa?

«Che sono un’ottima cosa, specie in un Paese dove, in vent’anni, 280 miliardi sono passati dai profitti alle rendite. Ma ora devono essere estesi a tutti e che non devono essere compensati da aumenti di tasse».

Lei quanto guadagna al mese?
«2.350 euro, più di un operaio del quinto livello. E mi bastano».

Ci dica un lusso che si permette.
«Un lusso?»

Un acquisto, una vacanza...
«Ah, le vacanze. Per molti anni sono andato in montagna, a Monte Piano, dove il mio bisnonno faceva il carbone. Ci sono solo quattro case, che appartengono a mia madre e ai suoi fratelli. Lei ci riunisce tutti lì d’estate. Però quest’anno, con mia moglie, ci siamo concessi il mare a Gabicce».

Landini, perché alla fine di questo colloquio mi viene il sospetto che presto entrerà in politica?
«Sono quattro anni che sono segretario della Fiom e tutte le volte che faccio qualcosa, dicono che voglio entrare politica. Mi dica lei perché».

Perché per ora non si vedono alternative a Renzi, perché lei è un ottimo competitor, perché ha già la notorietà televisiva necessaria, perché tanti altri sindacalisti l’hanno già fatto nel passato...
«È vero, però avevano tutti finito il loro mandato. Io, almeno per i prossimi tre anni, sarò alla guida della Fiom e farei un tradimento alle persone che rappresento. In televisione ci vado la metà delle volte che mi chiamano e ritengo che vada ricostruita una partecipazione dal basso senza troppi personalismi. Insomma, allo stato delle cose non penso di entrare in politica. Ma è anche vero che ormai hanno alzato l’età della pensione... ».