Sollima è un regista tutto muscoli, a suo agio nelle poche sequenze d’azione, mentre per il resto si affida a un’estetica automatica da serie che va bene per richiamare l’attenzione sul piccolo schermo, ma al cinema crea una ridondanza in cui tutte le sequenze sembrano super-drammatiche

Quando due anni fa uscì il romanzo “Suburra” di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, la descrizione di una Roma mefitica, dominata da gang rivali e sull’orlo del baratro sembrava sinistra e già profetica. Nel frattempo, tra l’inchiesta Mafia capitale e i funerali dei Casamonica, molte cose sono diventate note ai più. Il film di Stefano Sollima, reduce da “Gomorra - la serie” arriva dunque con un tempismo perfetto e quasi stordente.

In sette giorni, i destini di vari personaggi convergono verso “l’Apocalisse”. Una grossa speculazione a Ostia, una legge in Parlamento che la deve consentire, una prostituta morta in casa di un politico, lo scontro tra due famiglie della malavita, un Papa prossimo alle dimissioni. Tante storie intrecciate, tasselli di una storia appena passata (siamo nel 2011), un intreccio di realtà e finzione spiazzante: ad esempio, nelle scene con la banda che rimanda ai Casamonica. Siamo tra “Romanzo criminale” e “1992”, con ambizioni da affresco ma anche una assoluta fedeltà ai canoni del noir, che impone situazioni, personaggi e luoghi noti allo spettatore.
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L’effetto finale è di semplificazione, di reductio ad fabulam potremmo dire. Il genere, non riletto criticamente, ma preso così com’è, fornisce dei binari, uno “storytelling” si direbbe oggi, riconoscibile e in fondo rassicurante nella sua prevedibilità, fino alla resa dei conti finale. Tra gli effetti collaterali, c’è, ad esempio, che alla fine il “buono” della storia è lo pseudo-Carminati interpretato da Claudio Amendola, mediatore tra mafia e politica, temibile ma saggio.
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Sollima è un regista tutto muscoli, a suo agio nelle poche sequenze d’azione, mentre per il resto si affida a un’estetica automatica da serie (macchina a mano, tonalità bluastre, musica enfatica) che va bene per richiamare l’attenzione sul piccolo schermo, ma al cinema crea una ridondanza in cui tutte le sequenze sembrano super-drammatiche. Si ricercano continue situazioni a effetto (uno spettacolare quanto surreale incendio sotto la pioggia, delle ambientazioni sempre vistose), gli attori sono sempre torvi o grugnanti. E alla fine, anche se la città si vede molto, i momenti migliori sono quelli di puro poliziesco, in cui è irrilevante se sullo schermo ci sia Roma o Gotham City.