I colossi della Silicon Valley continuano a eludere miliardi. L’Europa (e l’Italia) tentano nuove strade per fargliele pagare. Una missione finora impossibile. Che però è diventata una grande partita a scacchi. Ecco le prossime mosse

Scena numero uno. Storico negozio di dischi “Mariposa”, uno dei più noti della zona Sud di Milano, vicino a Porta Romana. Fino a quattro anni fa, quando un cliente acquistava un cd, innescava un circolo economico di questo genere: il proprietario incassava il prezzo del prodotto più l’Iva destinata allo Stato, versava all’Inps i contributi per i commessi e se, alla fine dell’anno, faceva un profitto, pagava le imposte pure su quello.

Scena numero due, oggi. “Mariposa” non ha cambiato nome ma è diventata una caffetteria. Tra i mille modi che i clienti possono scegliere per scaricare musica (legalmente) c’è ad esempio iTunes, l’applicazione nata per chi ha un computer o un iPhone della Apple. Se si acquista “No Place in Heaven”, l’ultimo di Mika, o un qualsiasi altro album, non si ha nessun rapporto con un’entità italiana. Si stabilisce un contratto con la iTunes Sarl, una società con sede in Lussemburgo, a sua volta posseduta dalla Apple Distribution International, basata nei sobborghi di Cork, in Irlanda. Non è un caso: il Lussemburgo e l’Irlanda sono, all’interno dell’Unione europea, i Paesi dove i colossi digitali hanno piazzato le sedi al di fuori degli Stati Uniti, beneficiando di una tassazione favorevole e di alcuni artifici fiscali che le legislazioni locali permettono.

Per l’Italia, al di là di caffè e pasticcini, resta poco: niente contributi Inps per i lavoratori, niente imposte sui redditi dei commessi o sui profitti dei negozianti. Ovviamente non si parla solo di dischi o di commercio on line, ma di un’intera economia. Una volta, per farsi catturare dalle novità del momento, si ascoltava “Superclassifica Show” su Canale 5, che sui profitti pubblicitari era tenuta a pagare le tasse in Italia. Oggi si guardano i video su YouTube, che è di proprietà di Google. Dove ha sede? Nessuna sorpresa: in Irlanda, per la precisione nella zona dei docks di Dublino, nove minuti a piedi dagli uffici europei di Facebook, un altro dei giganti californiani del web.
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La chiamano “erosione fiscale” e, tra i tanti effetti dell’economia digitale, è quello che preoccupa maggiormente i governi dei Paesi più popolosi d’Europa. Con il successo dei cannibali digitali, come li ha chiamati “l’Espresso” in un’inchiesta pubblicata a fine agosto, le casse degli Stati si svuotano. Per questo motivo ha suscitato fibrillazione l’annuncio arrivato sabato 25 settembre dall’Ocse, l’organizzazione dei 34 Paesi più avanzati che, nel 1962, aveva disegnato i princìpi su cui ancora oggi si basa la tassazione delle multinazionali. Dopo oltre due anni di lavoro, l’Ocse ha detto che lunedì 5 ottobre, in diretta streaming da Parigi, renderà note le sue conclusioni su come riformare il sistema che regola i rapporti fiscali internazionali. Toccherà al segretario generale, il messicano Angel Gurría, presentare il pacchetto dettagliato delle riforme proposte ai ministri finanziari del G20, che si riuniranno l’8 ottobre a Lima.
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Ad aspettare con ansia i risultati non ci sono soltanto gli ultra-pagati manager dei giganti del web, preoccupati di vedere i margini di guadagno delle loro corporation assottigliarsi per le tasse in più che potrebbero essere costretti a pagare. C’è anche il premier Matteo Renzi, che il 14 settembre ha annunciato l’introduzione - a partire dal primo gennaio 2017 - di una “digital tax” in grado di riportare in patria un po’ dei quattrini erosi dalle strategie fiscali delle multinazionali digitali.

Due-tre miliardi l’anno, ha stimato il sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, buttando lì una cifra che a Renzi servirebbe come il pane. Per fare un esempio, se terrà fede alla promessa di azzerare Imu e Tasi sulla prima casa, il governo vedrà le entrate pubbliche ridursi di 3,5 miliardi. Per questo motivo, ancora prima di sapere se le decisioni dell’Ocse daranno la possibilità di agire in modo efficace per far pagare Google & C., a Palazzo Chigi si sono messi all’opera per studiare un modo per raggiungere l’obiettivo.

Negli stessi giorni dell’annuncio di Renzi, si sono infatti riuniti gli esperti di fisco di un più ampio gruppo di lavoro su Internet guidato da Raffaele Tiscar, sottosegretario della presidenza del Consiglio, che consiglia il premier sulle questioni digitali. C’erano tre tributaristi, Andrea Parolini, Tommaso Di Tanno e Rocco Panetta, più un professore del dipartimento di Management e Tecnologia della Bocconi, Francesco Sacco. Sul tavolo sono finite due mosse che il governo potrebbe tentare se, come alcuni temono, il pacchetto di riforme dell’Ocse non fosse risolutivo.

È questo il punto chiave. Pochi nutrono dubbi sul fatto che un vero attacco agli interessi dei cannibali digitali possa venire soltanto in un nuovo sistema di regole internazionali: «Una soluzione non unilaterale porrebbe il governo al riparo dal rischio di contenziosi», osserva Di Tanno, fondatore di uno studio tributario con sedi a Roma e Milano.

A parole, l’Ocse sembra volersi muovere concretamente: le riforme giunte ormai al dunque hanno lo scopo di fornire ai governi «chiare soluzioni per affrontare le lacune nelle regole attuali, che permettono ai profitti societari di essere trasferiti in location a tassazione bassa o nulla, dove non avviene nessuna creazione di valore», dicono i documenti ufficiali.

In questi ultimi due anni, chi ha seguito i lavori nutre però dubbi sul fatto che i problemi verranno risolti alla radice. La Global Alliance for Tax Justice, un’organizzazione internazionale di cui fanno parte ong come Action Aid e Oxfam, osserva che in alcune fasi dei lavori l’Ocse non ha voluto mettere in discussione il concetto su cui si basa la tassazione internazionale: i profitti che una multinazionale fa in Italia - ad esempio - possono essere tassati dal governo di Roma solo se l’azienda possiede sul territorio italiano una “stabile organizzazione”, una struttura che le permette di esercitare la sua attività.

Questo concetto per i colossi del web non funziona, perché al di là di casi truffaldini molti possono veramente non avere una stabile organizzazione in Paesi dove fanno affari miliardari. Per distribuire il gettito fiscale in modo equo, dunque, dovrebbe bastare la presenza significativa su un singolo mercato, anche semplicemente come volume di clienti. Global Alliance, invece, accoglie con favore un’altra proposta su cui ha lavorato l’Ocse, chiamata “country by country reporting”: le multinazionali saranno tenute a presentare un rapporto che include i dati sulle attività svolte nei vari Paesi, che potrà servire a quei governi che vorranno tassarne i profitti fatti localmente. Anche se, sostiene l’organizzazione, è troppo alto il limite minimo di fatturato consolidato che farebbe scattare l’obbligo, 750 milioni di dollari.

Francesco Tundo, professore di diritto tributario all’Università di Bologna, dice però di non disperare che dall’Ocse possa arrivare una vera svolta. Osserva che in tempi recenti l’organizzazione ha fatto scelte innovative, ad esempio promuovendo la normativa appena recepita dal governo italiano con il nome “patent box”, che potrà favorire il rientro dei brevetti depositati all’estero e gli investimenti in ricerca: «L’obiettivo dev’essere quello di introdurre un sistema uniforme a livello internazionale, in modo che non si formino sacche di elusione. E questo, com’è avvenuto per il “patent box”, può essere attuato con un meccanismo di incentivi che determini una “spinta gentile” in grado di favorire il rispetto delle norme», spiega.

Se questo non avverrà, a Renzi resteranno le due opzioni su cui stanno lavorando a Palazzo Chigi. La prima nasce da una proposta di Massimo Mucchetti, presidente della Commissione Industria del Senato, rielaborata dal deputato Stefano Quintarelli. Prevede che sui pagamenti nei confronti di aziende straniere per l’acquisto di beni per via digitale, le banche (o chi versa i soldi) operino una ritenuta a titolo d’imposta pari al 25-26 per cento. La seconda è invece quella attuata nel Regno Unito dal primo ministro David Cameron il primo aprile scorso. Si chiama “diverted profit tax”, tassa sui profitti dirottati, perché si propone come un’imposta del 25 per cento sui guadagni che colossi come Google fanno commercializzando prodotti e servizi ai sudditi della Corona.

La norma si presenta come anti-elusiva e ha la sua difficoltà nella quantificazione dei profitti realizzati sul suolo britannico. Le stime di incasso di Londra non sono alte: 25 milioni di sterline quest’anno, 270 il prossimo e 360 quello successivo. Intanto, però, Amazon ha iniziato a pagare nel Regno Unito la tasse societarie. Il gigante del commercio on line ha detto che il cambiamento era stato deciso in precedenza, e che nel frattempo ha aperto la partita Iva anche in altre nazioni europee, Italia compresa. Da noi la situazione non è però così chiara. Il 30 aprile Amazon ha infatti aperto una partita Iva, ma la società a cui si riferisce è la Amazon Eu, di diritto lussemburghese, che finora ha fatturato le vendite in Italia e in altri Paesi europei. Insomma la situazione italiana non sembra uguale a quella inglese. Lì Amazon pagherà le tasse sui profitti. In Italia verserà l’Iva allo Stato sulle vendite, cosa che finora non avveniva, ma al momento le tasse sugli eventuali guadagni continueranno a finire nel Granducato. Forse, però, una breccia si è aperta.