Non solo Siria e Iraq. In altri cinque luoghi tra Asia e Africa lo Stato islamico ha proclamato le sue “province”. Ecco come sono ?nate e chi sono i leader

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È trascorso un anno e mezzo da quando Abu Bakr al-Baghdadi ha proclamato lo Stato islamico (Daesh in arabo) subito dopo la presa di Mosul, in Iraq. Da allora almeno 42 sigle fondamentaliste, attive dall’Africa Occidentale all’Estremo Oriente, hanno giurato fedeltà e obbedienza al sedicente Califfo e si sono rese responsabili di attentati in suo nome.

E se nell’area compresa tra Iraq e Siria c’è il nucleo originario che ha dato vita a uno Stato di fatto, con capitale Raqqa, un esercito di 30-40 mila soldati, e una popolazione di circa dieci milioni di abitanti, altrove sono sorte altre cinque “province” del Califfato, su aree che i suoi uomini controllano spargendo il terrore e imponendo la Sharia come legge fondamentale.

Dall’Afghanistan al Caucaso, dalla Libia al Sinai, per finire in Nigeria, ecco come al-Baghdadi è riuscito a piegare sotto il suo comando gruppi un tempo autonomi, di quali alleanze ha goduto, quali emissari ha usato per convincerli a unirsi alla battaglia comune nel tentativo di formare, a poco a poco, la Umma, cioè la nazione comune di tutti i musulmani. Con un ritratto dei leader locali, piccoli “califfi”, all’ombra della sua carismatica figura.
Ritratto
Isis, chi è Abu Bakr al-Baghdadi il nemico numero uno dell’umanità
18/12/2015

NIGERIA - "MI DIVERTO A UCCIDERE"
Abubakar Shekau, leader di Boko Haram, sembra avere molteplici vite. «Muore più spesso di una batteria dell’iPhone», ha commentato Ryan Cummings, analista militare a proposito delle molte volte in cui è stato dato per ucciso in battaglia.

La verità ?è che quello che agli inizi del millennio era un movimento islamista di una povera regione nordorientale della Nigeria, ?con la sua adesione a Daesh è diventato il gruppo islamista più temuto d’Africa. Se l’azione fino ad oggi più eclatante, il rapimento di 280 ragazze, è avvenuta dopo l’adozione del franchising ?di Daesh, la trasformazione ?da setta predicante a gruppo del terrore era già iniziata ?nel 2009 ad opera di Shekau.

Abubakar Shekau è un incrocio tra un gangster e un imam, è nato in un villaggio al confine con il Niger e di lui non si conosce nemmeno l’età ?(pare abbia attorno a 40 anni). Per anni ha studiato in una madrassa da cui è stato allontanato per le tendenze troppo radicali.

Ha continuato gli studi islamici al Borno ?State College, elemento che ?gli è valso il soprannome ?di “Darul Tawheed”, esperto ?di monoteismo, dell’unicità di Allah. Negli 11 anni di studi alla madrassa i genitori non sono mai andati a trovarlo: ?un dolore che si sarebbe trasformato in rabbia cieca tanto da essere internato ?in un ospedale psichiatrico ?da cui è evaso.

Per sbarcare il lunario subito dopo gli studi ha venduto profumi e unguenti al mercato, sempre vestito di bianco e con la testa avvolta in un turbante. Fatale l’adesione a Boko Haram una setta fondata da un imam carismatico, Mohammed Yusuf, per lottare pacificamente contro uno Stato corrotto.

Grazie alla sua incredibile capacità di attrarre giovani combattenti Shekau divenne velocemente il braccio destro ?di Yusuf e quando questi nel 2009 fu ucciso dai poliziotti che lo avevano catturato, assunse il comando dell’organizzazione. Prima sparì per un anno dalla circolazione (secondo molti in campi di addestramento di al Qaeda) ?e poi tornò più agguerrito che mai.

Sposò una delle quattro mogli di Yusuf e ne adottò i figli. Cominciò a formare un esercito. Chiunque entrava in conflitto con lui era immediatamente ucciso, inclusi altri capi dell’organizzazione più moderati. «Mi diverto ad uccidere chiunque Dio mi chiede di uccidere, nello stesso modo in cui mi diverto ad uccidere polli e montoni», ?ha spiegato in un video.

In sei anni Boko Haram ha ucciso più di 4000 persone nella sola Nigeria in attacchi contro chiese, organizzazioni internazionali, caserme e villaggi. Ha stretto legami con gli islamisti affiliati all’Is in Chad e in Niger. Ma la sua competenza di questioni internazionali è limitata: più volte ha dichiarato di voler uccidere Margaret Thatcher ?e papa Giovanni Paolo II.
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LIBIA - UN EX GHEDDAFIANO PADRONE DI SIRTE
Lo scorso agosto, durante un sermone nella moschea al Rabat di Sirte, un giovane ragazzo ?di fronte a un folto gruppo di fedeli ha dichiarato la città “Emirato Islamico Libico”. Il giovane è Hassan al Karami (conosciuto anche come Abu Muawiyah al-Libi) attuale leader spirituale dello Stato islamico in Libia, è nato nel 1986 a Bengasi ed è stato uno dei leader di Ansar ?al Sharia.

Molti componenti della ?sua famiglia erano uomini di Gheddafi. La famiglia Karami rappresenta dunque perfettamente la doppia faccia dell’Is libico: da un lato ex gheddafiani nostalgici del regime, dall’altro appartententi ?(e finanziatori) di Ansar ?al Sharia (l’organizzazione salafita che ha spianato ?la strada agli uomini
del Califfo).

Wolfram Lacher, nel suo “Libya: a Jihadist Growth” scrive: “Molti giovani libici hanno combattuto in Iraq nel 2005-7. Già allora ?una delle famiglie di spicco nell’orbita estremista ?era quella dei Karami”. Secondo fonti locali anche Hassan al Karami avrebbe combattuto in Iraq, ancora molto giovane, nel 2006. A quell’esperienza si deve ?la sua conoscenza con Abu Musab Al Zarqawi, predecessore di Al Baghdadi e si deve a questo incontro ?il ruolo di primo piano nell’esportazione dello Stato islamico a Sirte.

Una volta tornato in Libia il giovane Hassan ha studiato a lungo in una scuola coranica diventando ?il punto di riferimento ?del consenso intorno all’Is. Hassan Al Karami era presente al primo Daw’ah (dichiarazione ?di proselitismo) allo Stato islamico il 30 ottobre 2014, in cui - da predicatore - invitata i cittadini a giurare fedeltà al Califfo e sarebbe stato lui ad ordinare la prima attività di Hisbah (polizia islamica) a Sirte, chiedendo ai combattenti ?di distruggere un santuario alla periferia della città.

Nei primi mesi del 2015 è emerso come protagonista dell’affiliazione all’Is in un elenco pubblicato dalla Brigata 166 di Misurata, che ha provato ad arginare lo Stato islamico a Sirte, prima di ritirarsi. Oggi Sirte ha due categorie di leader: i locali, appunto ?i Karami, e gli stranieri: nel quartier generale comanda un pachistano, la prigione ?è in mano a un uomo ?del Kwait, l’Università è presieduta da un nigeriano di Boko Haram.

Secondo alcuni cittadini ?di Sirte, i miliziani di Daesh avrebbero ucciso decine di uomini e crocifisso diversi cittadini, per dissuadere ?i residenti a ribellarsi. Dopo la soppressione della rivolta della tribù Ferjani, ordinata da Hassan ?al Karami, il leader ha annunciato la decapitazione dei rivoltosi e ordinato alle famiglie di Sirte di cedere le proprie figlie affinché diventino spose dei miliziani.

Secondo una fonte dell’intelligence ?di Misurata, Karami oggi sarebbe anche ?il negoziatore per lo scambio di prigionieri ?tra Misurata e Sirte. Di nuovo la doppia ?faccia dell’Is libico: ?ai gheddafiani è stata data ?la possibilità di festeggiare l’anniversario della rivoluzione verde del rais, ?i Karami avrebbero chiesto la liberazione ?del cugino gheddafiano Ismail, in carcere dalla rivoluzione del 2011, in cambio di alcuni miliziani prigionieri delle brigate ?di Misurata.
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CAUCASO - IN ODIO DEI RUSSI
Abu Bakr al-Baghdadi, «la guida dei fedeli», ?«ha accettato il vostro atto ?di fedeltà e ha nominato ?lo sceicco Abu Mohammed al-Qadari come governatore del Caucaso». Con queste parole il 23 giugno 2015 il portavoce dello Stato islamico, Abu Mohammed al-Adnani, ha annunciato la nascita della nuova provincia del Califfato nel Caucaso, il Vilayat Kavkza.

A guidarla è stato chiamato ?al-Qadari, uno dei tanti pseudonimi di Rustam Asilderov, jihadista dalla lunga esperienza, già a capo della provincia del Dagestan per conto dell’Emirato islamico del Caucaso, la rete fondata nel 2007 per unire sotto un unico cappello i movimenti radicali islamisti che operano nell’irrequieta periferia russa.

In quell’occasione, il portavoce del Califfo è stato chiaro: tutti i «mujahedin dello Stato islamico nel Caucaso» sono tenuti a unirsi «alla carovana di al-Qadari, ascoltarlo e obbedirgli in tutto, tranne che nel peccato».

La nomina di Rustam Asilderov premia un uomo giovane, ma già veterano del jihad: nato il 9 marzo 1981 nella valle di Kadar, nel cuore del Dagestan, da anni è tra i protagonisti della guerriglia islamista anti-russa, erede della prima e della seconda guerra cecena.

Arrestato nel 2007 e poi rilasciato, ha scalato i vertici dell’Emirato del Caucaso, da semplice guerrigliero fino a leader. Nominato nel maggio 2010 ?a capo del settore centrale della provincia del Dagestan, l’8 agosto 2012 è diventato il capo militare e il referente ideologico della provincia.

Nel dicembre del 2014, ?in un video diffuso sui social, lo strappo. Asilderov ha disconosciuto l’autorità di Aliashkab Kebekov, l’allora leader dell’Emirato islamico del Caucaso. Nel video, Asilderov precisa che avrebbe dichiarato fedeltà al Califfo perfino prima, ma che ha ritardato perché sperava di convincere Kebekov, il suo ex mentore, a lasciare l’orbita di al Qaeda per unirsi al Califfo.

Asilderov «è salito sul carro del vincitore», dicono di lui gli ex compagni di jihad. Ma per ora può vantare solo il titolo onorifico. Non è riuscito ?infatti a convincere i notabili ?di Raqqa, la capitale ?de facto dello Stato islamico, a dirottare significative risorse verso la provincia del Caucaso.

Né a sferrare attacchi importanti contro ?il nemico storico, il governo russo. L’unico attentato rivendicato dai suoi uomini risale al 2 settembre, contro una caserma nel distretto di Magaramkentsky, nel Dagestan del Sud. Mentre due mesi fa ha dovuto lanciare un appello, sottoscritto dal Califfo in persona, per reclutare nuovi militanti.

Per l’uomo-forte ?di Putin in Cecenia, Ramzan Kadyrov, la nuova provincia dell’Is nel Caucaso «è solo un bluff», «un manipolo di banditi nascosti nelle grotte». Eppure il Cremlino guarda con preoccupazione al nuovo corso. Lo scorso ottobre Eduard Kaburneyev, che guida la sezione del Dagestan del Comitato investigativo russo, ha annunciato l’apertura ?di un’inchiesta sul gruppo ?di Asilderov.

Accusato di voler sovvertire la Costituzione con l’obiettivo di violare l’integrità territoriale del Paese. Anche l’amministrazione Obama ?non sottovaluta la minaccia. ?A settembre il segretario di Stato americano, John Kerry, ha incluso Asilderov e la vilayat da lui governata nella lista delle organizzazioni terroristiche.
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AFGHANISTAN -  SFIDA AD AL QUAEDA
Il Califfo al-Baghdadi ha messo nelle mani di Hafiz Saeed Khan la partita più importante: strappare ?ai nemici di al Qaeda l’Afghanistan, il Paese ?in cui è nato il jihad contemporaneo. ?Nato nel 1972 nella cittadina di Mamozai, nell’agenzia di Orakzai, una delle aree pachistane in cui l’autorità di Islamabad è subalterna alle leggi tribali, tre figli e due mogli, dal 26 gennaio 2015 Hafiz Saeed Khan è il governatore della provincia dello Stato islamico nel Khorasan.

Un’area che storicamente include il territorio dell’attuale Afghanistan, ?le zone orientali dell’Iran, oltre a porzioni significative di Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan, ma che per lo Stato islamico si estende fino al subcontinente indiano.

La partita cruciale si gioca però in Afghanistan ?e Pakistan, i due Paesi ?su cui sembra puntare militarmente Hafiz Saeed Khan, e dove il Califfo ha adottato la consueta politica espansionistica: reclutare con denaro contante, sfruttando il malcontento dei jihadisti disillusi, ?in rotta di collisione ?con le organizzazioni di provenienza. È il caso del governatore del Khorasan.

Hafiz Saeed Khan è stato infatti per molti anni un pezzo da novanta del Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP), i Talebani pakistani, una rete fondata nel 2007 per unire i gruppi paramilitari che operavano nelle aree tribali del Pakistan e nel Khyber Pakhtunkhwa e che oggi condividono con ?i cugini afghani poco più del nome.

Già emiro del TTP per la regione dell’Orakzai, Hafiz Saeed Khan è entrato in rotta di collisione con ?il suo gruppo nel novembre 2013, quando non gli è stato concesso il comando. ?Un anno dopo, alla fine ?del 2014, ha annunciato ?il distacco dal TTP, riconoscendo l’autorità ?del Califfo.

La nomina a wali (governatore) del Khorasan per lo Stato islamico è avvenuta pochi mesi dopo. Quando il portavoce del Califfo, Abu Mohammad al-Adnani, ha reso pubblico un video di 7 minuti in cui si congratula con il nuovo wali e mette in guardia i suoi uomini: «Le fazioni, ?le baionette e i fucili contro ?di voi si moltiplicheranno». Così è stato. I talebani afghani, che con al Qaeda hanno stabilito un’alleanza tattica, vedono come fumo negli occhi Hafiz Saeed Khan, il Califfo e la loro pretesa egemonica ?sul jihad in Afghanistan.

A distinguerli, ci sono differenze ideologiche e dottrinarie. E soprattutto l’obiettivo: la partita ?dei talebani è tutta interna ?ai confini nazionali, quella del Califfo in Khorasan è transnazionale. Non a caso, Hafiz Saeed Khan ha intensificato le attività ?di reclutamento nelle province afghane al confine con il Pakistan, lì dove è più diffuso l’Islam salafita, alieno ai talebani, di scuola deobandi. E dove è più facile mobilitare tutti quei pashtun che non riconoscono ?la Durand Line, il confine tra Afghanistan e Pakistan tracciato a tavolino nel 1893.

Nella provincia afghana ?di Nangarhar, gli uomini ?di Hafiz Saeed Khan sono più forti che altrove. Hanno campi di addestramento che portano i nomi dei padri tutelari dell’Is, e dopo aver costretto i talebani ?sulla difensiva puntano ?ad accerchiare e colpire ?il capoluogo, Jalalabad, ?e a controllare la strada ?che da lì conduce al posto di confine di Torkham.

I soldi non mancano. Nella sola provincia di Nangarhar, Hafiz Saeed Khan - che l’intelligence afghana ha dato per morto lo scorso luglio ma che le nostre fonti assicurano essere ancora alla guida del gruppo - disporrebbe di 40 milioni di dollari. Utili per comprare nuove reclute, ma insufficienti per mettere ?in piedi una struttura ?di comando unitaria.

Per questo, Hafiz Saeed Khan ha inviato degli emissari in Iraq, per discutere con la leadership centrale dello Stato islamico. E il Califfo ha in mente di spostare i suoi consiglieri arabi, ora di stanza in Pakistan e a Dubai, proprio in Afghanistan. L’obiettivo ?è chiaro: entro il 2016 imporre il proprio sistema ?di giustizia in tutta la provincia di Nangarhar. ?Nei due anni successivi, strappare l’Afghanistan ai talebani. Colpendo al cuore i nemici di al Qaeda. 
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SINAI - UN CAPO SENZA VOLTO
Nel video più recente, datato metà agosto, Abu Osama al Masri, è in ginocchio accanto a una messe di armi e munizioni, mostrata con orgoglio, come se fosse l’unico raccolto fruibile nel deserto del Sinai. ?E in effetti, da quando nel 2014 l’arida penisola egiziana è stata da lui proclamata provincia dello Stato islamico, le armi sono spuntate ovunque, compresa la bomba che avrebbe fatto esplodere l’aereo civile russo uccidendo più di 200 persone. Ma sia in questo video sia in altri, il volto e le mani dell’imam egiziano, 42 anni, sono oscurati.

Questione di sicurezza e di vitiligine. Il jihadista, laureato in studi islamici all’univerità al Azhar del Cairo, non si è mai fatto riprendere in viso e le poche foto che esistono sono il risultato di lunghe ricerche dei servizi segreti di mezzo mondo. Mentre i guanti neri servirebbero a coprire il problema dermatologico.

Di lui si sa molto poco, anche dopo la scalata al vertice del Wilayat Sinai, la“provincia del Sinai” dell’Is. Ovviamente Abu Osama al Masri è il nome di battaglia. «Avvelenate il loro cibo, sorvegliateli ovunque, ?in casa, per strada, usate qualsiasi oggetto per distruggerli, farli a pezzi, mettete degli esplosivi nelle loro auto e abitazioni, colpite le loro ambasciate», è il proclama con cui ha debuttato nel ruolo di leader, rivolto alle cellule ?nei Paesi degli “Infedeli”.

L’esplosione, nel luglio scorso, davanti all’ambasciata italiana al Cairo, è stata attribuita alla sua organizzazione. Prima di assurgere a guida del Wilayat Sinai, gli obiettivi dell’uomo senza volto erano locali, ora ?le sue trame sono diventate globali. Come dimostra l’attentato all’aereo russo ?di cui si è attribuito il “merito”.

L’estate scorsa ha pubblicato un video con la decapitazione di quattro beduini, accusati ?di aver passato informazioni ?a spie israeliane. In passato, sarebbe stato lui la mente dietro l’attacco nella località turistica israeliana di Eilat sul Mar Rosso, così come di un attentato suicida nel 2013 contro la sede della Direzione sicurezza a Mansoura: 16 morti e un centinaio di feriti.

Anche la decapitazione di William Henderson, esperto ?di energia americano che lavorava in una raffineria, porterebbe la sua firma. Intercettando gli scambi di messaggi dopo l’esplosione dell’Airbus, si evince che «Wilayat Sinai» si aspetti ?di ricevere, come regalo per l’efficienza, dalla casa madre irachena più armamenti e foreign fighters per rafforzare ?i propri ranghi e denaro fresco con cui ungere i capi delle tribù beduine locali, indispensabili per poter agire indisturbati.