Sono gli uomini d’oro della nuova televisione: quei visionari in grado di creare e rendere possibili le serie di culto nel mondo. Da Nic Pizzolatto ("True Detective") a Beau Willimon ("House of Cards")

Come molti suoi colleghi i cui sogni di gloria letterari si erano fermati alla pubblicazione su qualche oscura rivista o erano rimasti sepolti in qualche cassetto, quattro anni fa Nic Pizzolatto era uno dei tanti scrittori americani irrequieti e frustrati. E arrabbiato. Una rabbia, la sua, che parte da lontano. Se la porta dentro sin dagli anni dell’infanzia in Louisiana, dove è cresciuto in una famiglia di cui non ama parlare ma, lascia intendere, c’erano alcol, violenza, povertà, ignoranza, superstizione. Lasciò i suoi e le sue terre che sapevano di paludi e di petrolio a 19 anni, per mettersi a girovagare per il Sud e il Mid-West. Prima venne Austin, in Texas, dove per quattro anni fece il barista sfruttando ogni minuto libero per leggere: divorava classici, gialli, poesia, storia, tutto quello che gli capitava per recuperare il tempo perduto. Poi si mise a studiare, e occasionalmente anche a insegnare, muovendosi tra Arkansas, North Carolina, Indiana e Colorado. È in quegli anni che Pizzolatto imparò a guadare con occhi nuovi una cosa che da un po’ di tempo era uscita dalla sua vita: la televisione. In particolare, show complessi come “I Soprano”, “Deadwood”, “The Wire”. «Alimentavano la mia fame di fiction più della letteratura che leggevo», ricorda Nic. «Erano lavori d’autore. Opera non di un regista ma di uno scrittore».
Showrunner
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11/2/2015

In realtà erano il frutto della passione e dell’impegno creativo di una figura del mondo della televisione che proprio in quegli anni stava emergendo: quella dello showrunner. Che, in mezzo a un numero inflazionato di produttori e di produttori esecutivi, è quel visionario che crea e rende possibile uno show. Sul quale poi esercita un livello di controllo di solito associato con gli scrittori. Aveva trovato la sua vocazione, Pizzolatto. Voleva essere uno showrunner di questa televisione nuova, dove i protagonisti raramente sono eroici, e dove al posto di scontati “happy endings” i finali sono spesso tragici.

Ma c’era un ostacolo, tra lui e quel traguardo: non solo non aveva mai scritto per la televisione ma non conosceva nessuno a Hollywood né nel mondo del entertainment. Finché, quattro anni fa, la svolta. Pizzolatto è ad Aspen, a una conferenza di scrittori. Incontra due agenti e gli passa un suo libro, “Galveston”, che non aveva avuto grande successo fino ad allora (in seguto è stato venduto ovunque, Italia è stato tradotto da Mondadori). «Non hai altro da farci vedere?», gli chiesero loro. «Almeno una trentina di idee», rispose lui. Spostò moglie figlia, che allora aveva due anni, in California. E poco dopo si ripresentò con sei trattamenti di sceneggiature per la televisione. Uno di questi l’aveva concepito come un romanzo raccontato da due voci diverse. “True Detective”, l’aveva chiamato.

Oggi, a 39 anni e 12 mesi esatti dall’esordio di quella serie negli Stati Uniti, Pizzolatto è diventato uno degli showrunner più ammirati e ricercati del mondo, proprio mentre il pianeta televisione sta vivendo la sua nuova età dell’oro. Un nome di culto, assieme a quello di altri leggendari showrunners americani come David Chase (“I Soprano”), JJ Abrams (“Alias” e “Lost”), Matthew Weiner (“Mad Men”), David Benioff e D.B Weiss (“Trono di spade”) e Beau Willimon (“House of Cards”).
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Trasmesso in Italia su Sky Atlantic lo scorso autunno “True Detective”, come suggerisce il titolo, è un poliziesco dalla trama apparentemente semplice: una strana coppia di poliziotti impegnati in una caccia a un serial killer. «Sì, ho utilizzato un genere molto americano, quello del poliziesco, che gira intorno a un crimine da risolvere», spiega l’autore. «A me però non interessava offrire allo spettatore il serial killer più sconvolgente della storia della televisione, quello che taglia i testicoli delle sue vittime e magari poi se li mangia. Ho voluto invece concentrarmi sui due detective che lo inseguono per 17 anni. Su come e perché cambiano loro, le loro coscienze, la loro memoria. Volevo che fosse un’indagine sui personaggi, che si intreccia con l’indagine criminale».

Due detective interpretati da due big del cinema. Rusty Cohle, che ha perso una moglie e una figlia e ha sepolto il suo dolore nel lavoro e in lunghi monologhi un po’ barocchi dove gli capita di citare anche Schopenhauer, è Matthew McCounaghey, vincitore di un Oscar per “Dallas Buyers Club”. L’altro poliziotto si chiama Marty Hart, ha una bella moglie (Michelle Monaghan) e anche la classica casetta americana recintata di bianco: però è un alcolizzato che pensa che le sue stellette di poliziotto lo autorizzino a fare tutto ciò che vuole impunemente. A interpretarlo è stato da Woody Harrelson, candidato a due Oscar per “Larry Flint” e “The Messenger”. Un bel colpo per Mr Pizzolatto. «Oggi gli attori migliori non vogliono fare parti da supereroi», risponde lui. «Allora diamogli la televisione. Su questo mezzo, negli ultimi dieci anni, si sono visti personaggi e storie molto superiori a tutto quello che ci offre il cinema».

Alla fine dell’ottavo episodio, McConaughey e Harrelson sono usciti di scena, perché “True Detective” ha un’altra particolarita’: è una serie antologica. Vuol dire che ogni stagione ha una sua conclusione e poi si ricomincia con una nuova storia e con nuovi interpreti. La prima serie è quasi un film di otto ore, che in ogni episodio adotta un passo ed un umore diversi: a volte lento e meditativo, altre volte frenetico. Si va continuamente avanti e indietro tra il presente e la storia di 17 anni prima. Insolito anche il serial killer, perché di vittime in realtà ce n’è una sola: la prostituta trovata legata a un albero circondata da corna di cervo e altri simboli rituali. Oltre che con la suspense della storia e con personaggi con idiosincrasie e molti demoni, Pizzolatto sa irretire il telespettatore trasportandolo negli acquitrini della sua natia Louisiana limacciosi e infestati di coccodrilli; in raffinerie che sembrano ispirate a “Blade Runner”, in case dove si praticano misteriosi rituali religiosi, in cimiteri popolati di anime sospese tra la vita e la morte.

Noir viscerale, questo, dove i protagonisti si confrontano con lealtà, dovere, fede. Con la morte vera e con quella figurata. Dove Pizzolatto lascia intendere che c’è molto delle sue battaglie, da piccolo e poi da adolescente. Adesso, però, ha avuto quello che cercava sin dall’addio alla famiglia e alla Louisiana: ha trovato fiducia in se stesso, è diventato un autore ammirato e ricercato.

Ora deve provare, a chi pensa che sia solo l’ultima stella del momento, anche un po’ arrogante, che è qui per restare. Infatti è già impegnato nelle riprese della seconda stagione, che ruota di nuovo attorno a un assassinio ma che questa volta è ambientata in California. I protagonisti principali passano da due a quattro. C’è Vince Vaughn, nella parte di un piccolo boss mafioso, e ci sono tre poliziotti, ognuno con i propri scheletri negli armadi: Colin Ferrell, Taylor Kitsch e (anche se lui nega che sia una risposta a chi gli ha riproverato l’assenza di donne forti nella prima stagione), Rachel McAdams nella parte di una sceriffa che non accetta compromessi ma che ha problemi di gioco.

«La nuova stagione sarà ancora più strana», promette Pizzolatto. «E avrà un ritmo più veloce». Se ce ne sarà una terza, promette, avrà un tono più comico. Ma non detto che ci arrivi, perché nel frattempo ha per le mani molti altri progetti. Vorrebbe fare una serie western centrata sulla monta dei tori, ha un po’ di idee anche per il cinema. Vuole riprendere in mano -assieme a Tom Cruise- un remake de “I magnifici sette”. Ha in testa altre due sceneggiature. Ma a dirigere sarebbe lui? «Certo», risponde senza esitazione. «Non sono venuto a Hollywood per dover ubbidire alla visione di qualcun altro!».