Delocalizzazioni selvagge. Gare al ribasso. Incentivi indiscriminati. E adesso il Jobs act, che salva i cocopro e rischia di andare a discapito dei lavoratori tutelati. Così un settore da 80 mila dipendenti è diventato lo specchio di un Paese alla deriva

Domenica 15 è toccato ai lavoratori di Almaviva, che dopo aver lanciato una campagna virale su twitter e Facebook, hanno organizzato un flash mob in piazza Politeama a Palermo. Martedì 10 a manifestare sono stati gli operatori del servizio informazioni del comune di Roma, che col cambio d’appalto rischiano di restare in 280 senza impiego. Pochi giorni prima era stata la volta dei dipendenti Infocontact, che a Cosenza hanno bloccato l'uscita dell'autostrada e poi la statale tirrenica.

Scene di una settimana-tipo nel mondo dei call center: braccia incrociate, proteste, sit-in. Fra delocalizzazioni selvagge, appalti che coprono a malapena il costo del lavoro e incentivi che hanno drogato il mercato e fatto la fortuna di imprenditori spregiudicati, a essere in fermento è infatti tutto il settore: 2,6 miliardi di fatturato l’anno e 82 mila lavoratori (un quarto i laureati), ben il 12 per cento più dall'inizio della crisi.

I tavoli di crisi al ministero sono diventati una routine e adesso rischia di mettersi di traverso anche il Jobs act, le cui tutele saranno pure crescenti ma partono da zero. E questo, unito alla decontribuzione per 36 mesi prevista per le start up, in un settore in cui il 60 per cento del personale ha un contratto a tempo indeterminato può far venire una tentazione: chiudere, riaprire (o creare new company) e assumere chi è a spasso col nuovo contratto. Con tanti saluti alle garanzie acquisite.

«Il rischio è che questi provvedimenti diventino una semplice “circolazione” di lavoro che già esiste» spiega Riccardo Saccone, coordinatore nazionale Telecomunicazioni della Slc-Cgil. «Ma con un pericoloso elemento di appetibilità in più: nei call center ci sono decine di migliaia di stabilizzati e molte aziende potrebbero puntare a sostituire i contratti vecchi col nuovo. E in un settore ad alta intensità di lavoro come questo sarebbe un bagno di sangue, senza peraltro creare un posto in più».

Non solo. Presentando la riforma del governo, il premier Matteo Renzi ha rivendicato “la rottamazione dei cocopro”. Solo che i lavoratori atipici dei call center in outbound (quelli delle proposte di contratti telefonici o delle ricerche di mercato) sopravviveranno al nuovo corso. Per loro il provvedimento prevede infatti un’eccezione, dunque nessuna speranza di essere stabilizzati. Il motivo? C’è già un accordo sindacale: un minimo di 4,78 euro l’ora. Non proprio una blindatura da nababbi per chi non guadagna più di 500-800 euro al mese.


E LO STATO PAGA (DUE VOLTE)
L’emblema di questa situazione è il caso Almaviva, che coi suoi circa 10 mila dipendenti (23 mila in tutto il mondo) è una delle più grandi aziende del settore. Controcorrente, a suo modo: niente delocalizzazioni per le commesse italiane, prevede lo statuto. Linea seguita anche da altri, come la barese E-care e la toscana Call&Call. Risultato: il costo del lavoro è maggiore e negli ultimi anni gli appalti sono diminuiti. È così, ad esempio, che Almaviva ha perso la gestione dei servizi 060606 e 020202, rispettivamente l’infopoint dei comuni di Roma e Milano. Adesso, dopo la decisione della Wind di lasciarle la commessa in Sicilia e Lombardia, gli oltre 2 mila operatori a rischio licenziamento possono tirare un sospiro di sollievo. «Ma non conosciamo ancora quali saranno le nuove condizioni e il nostro timore è che possano esserci ricadute su di noi» frena Massimiliano Fiduccia, della rsu di Palermo.

Del resto scaricare i costi sull’ultima rotella dell’ingranaggio non è una novità. Per non perdere il posto tre mesi fa i 261 dipendenti della società Accenture hanno dovuto rinunciare agli integrativi aziendali. Mentre ai 1.500 della Infocontact è stata prospettata come condizione per essere assunti dai nuovi acquirenti la riduzione dell'orario: per i full time da 40 a 30 ore settimanali e per i part time da 30 a 20. Tradotto: circa 200-300 euro al mese in meno, il 25-30 per cento dello stipendio.

L’assurdità è che, per come è stato concepito il sistema, gli incentivi non solo non hanno creato posti di lavoro ma hanno unicamente accentuato la concorrenze sleale, perché potendo abbattere il costo del lavoro molte aziende “mordi e fuggi” riescono a fare incetta di commesse penalizzando le concorrenti. E così lo Stato alla fine paga due volte. Prima per le agevolazioni, in termini di minori introiti fiscali. Poi - quando terminano, gli imprenditori chiudono baracca e magari si trasferiscono all’estero - per gli ammortizzatori sociali. Proprio come accaduto col colosso Phonemedia.


DELOCAL
Se Paolo Virzì volesse girare il sequel di “Tutta la vita davanti”, dedicato proprio al mondo dei call center, oggi come location più che Roma dovrebbe scegliere Tirana. È qui infatti che imprese come il calabrese gruppo Abramo o la multinazionale Teleperformance hanno trovato il loro paradiso: costo del lavoro irrilevante (solitamente 200 euro al mese per un part time), contratti per lo più trimestrali, flat tax al 15 per cento e soprattutto - come ha rivendicato con orgoglio il premier Edi Rama nel corso della recente visita di Renzi - niente sindacati. Un mix che fra la capitale, Valona, Durazzo e Scutari consente a migliaia di ragazzi cresciuti a pane e tv italiana di mettere a frutto la lingua imparata da bambini. Il Paese delle aquile ormai ha un rilievo tale che il mese scorso il Garante della privacy ha firmato un accordo con l’omologo albanese Besnik Dervishi per tutelare il trattamento dati degli utenti italiani. Intesa che se da un lato punta alla difesa della privacy, secondo la Fistel-Cisl incentiverà ulteriormente la delocalizzazione.

Ma a fare faville non è solo Tirana. Fuori dalla Ue attualmente hanno call center almeno 36 società (quelle che lo hanno comunicato, da norma, al Garante). Mentre il “distretto della cuffia”, che a lungo ha furoreggiato nel nostro Mezzogiorno grazie ai generosi incentivi della legge 407 oggi ha traslocato per lo più all’Est. Bulgaria, Romania (dove opera la torinese Comdata), Polonia e, da ultimo, Croazia e Tunisia (Paesi in cui primeggia la multinazionale Transcom). Secondo le stime dell’associazione di categoria Assocontact, all’estero si è già trasferito il 10-15 per cento del mercato. Che impiega, calcolano i sindacati, almeno 15 mila lavoratori.


OPERATORE LOW COST
A volerlo, uno strumento per frenare questa situazione ci sarebbe: prevedere un vincolo territoriale nelle commesse. Appalto vinto in Italia, servizio svolto completamente in Italia. Oppure pretendere la restituzione degli incentivi da chi va all'estero. Solo che in tempi di magra la prima a non avere interesse è proprio la pubblica amministrazione. E così fioccano gli appalti al massimo ribasso. O comunque le gare al massimo risparmio possibile. Come accaduto a Milano, dove i sindacati hanno accusato il comune di non garantire nemmeno il minimo salariale agli operatori dell’infoline.

Come deterrente basterebbe prevedere la continuità lavorativa nei cambi d'appalto, come ad esempio già accade per le imprese di pulizie: le aziende si avvicendano, i dipendenti no. Tanto più che ce lo chiede anche l’Unione europea. La direttiva l'ha recepita perfino la “maglia nera” Grecia, noi invece dal 2001 ancora non abbiamo trovato il tempo di applicarla.