Nell'arco di un decennio sono passate ad essere da piccole start-up a macchine da soldi. I cui capi guadagnano fino a sette miliardi in un’ora.  E si mangiano il resto dell’economia

Il termometro segna febbre altissima. Il Nasdaq, l’indice di Wall Street che raggruppa i titoli delle aziende tecnologiche, a fine luglio ha toccato il massimo storico. Ha superato persino i livelli del 2000, quando scoppiò la bolla di Internet. Poi, nei giorni scorsi, quando i listini cinesi sono crollati, anche il Nasdaq si è indebolito. Siamo dunque alla vigilia di un nuovo tonfo delle cosiddette dotcom? La differenza rispetto ad allora è che la new economy si è trasformata semplicemente in economy. In quindici anni il numero di persone connesse è aumentato di otto volte, portando in Rete metà della popolazione mondiale. E quelle che fino a poco tempo fa erano start-up capaci di fare tanto rumore ma pochi quattrini oggi sono diventate macchine da soldi di stazza pari, se non più grande, a quella di storici nomi dell’industria tradizionale.

Se Internet fosse considerato come un unico comparto, ha calcolato la società di consulenza McKinsey, la sua forza sarebbe oggi superiore a quella del settore petrolifero. Tutto in meno di dieci anni. E tutto, o quasi, per via di quattro nomi: Amazon, Apple, Google e Facebook. Queste aziende della West Coast americana vantano oggi un valore di Borsa pari al prodotto interno lordo della Spagna, la dodicesima potenza al mondo. Un boom che ha stravolto interi settori dell’economia, dal commercio all’editoria, dalla pubblicità alla musica.
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C’è una storia che indica meglio di altre dove finiscono oggi i capitali. Nel 2012 Kevin Systrom era un imprenditore di 28 anni con una decina di dipendenti e una società di nome Instagram, un social network per le fotografie. Non produceva reddito, Instagram, eppure Facebook decise di comprarla sborsando un miliardo di dollari. Follia, fu il giudizio piuttosto unanime degli esperti. L’anno scorso la stessa Facebook ha fatto un altro acquisto: Whatsapp, una società di messaggistica istantanea con 32 dipendenti, è stata comprata per 22 miliardi di dollari. Cosa hanno detto gli analisti? Che il giovane Systrom, a pensarci bene, doveva chiedere di più. L’ascesa al potere delle aziende di Internet è avvenuta mentre tutto il resto andava a picco.
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Dopo il fallimento di Lehman Brothers, nel 2008, per far riprendere l’economia la banca centrale americana ha iniziato a prestare soldi a tassi d’interesse bassissimi. Buona parte di questa liquidità è finita nella Silicon Valley, sede di uno dei pochi settori immuni dalla crisi: quello tecnologico, che oggi vuol dire soprattutto Internet mobile. In quindici anni le persone con accesso alla rete sono passate da 400 milioni a 3,2 miliardi, e questa crescita è stata causata soprattutto dal boom degli smartphone.
Con il Web in tasca

La lista delle società che si sono lanciate con successo nel business digitale è lunghissima. Ebay, Twitter, Skype, Netflix, Linkedin: fino alle matricole Uber e Airbnb, capaci in pochissimo tempo di rosicchiare quote di mercato a business tradizionali come quello dei taxi e degli hotel. I nomi da cui non si può quasi più prescindere, però, sono pochissimi. Comprare? Amazon. Connettersi? Apple. Cercare? Google. Comunicare? Facebook (o Whatsapp). Alzi la mano chi non ha mai usato i servizi di almeno una di queste società. Il risultato è scritto nei numeri. Nel 2005, tutte insieme, le quattro aziende fatturavano 28,7 miliardi di dollari; l’anno scorso sono arrivate a 350 miliardi.

Potrebbe venire il dubbio che a fronte di tutti questi ricavi i guadagni siano pochi, invece è vero il contrario. C’è infatti una peculiarità che ha permesso alle regine del digitale di diventare presto redditizie. Spiega Francesco Sacco, docente di Strategie aziendali all’Università dell’Insubria e alla Bocconi: «Nell’economia tradizionale, pensiamo all’uso dei fertilizzanti in agricoltura, l’incremento dell’utilizzo porta benefici marginalmente decrescenti: man mano che se ne aumenta l’uso, il beneficio decresce, i costi crescono e questo fa diminuire il margine di guadagno sul singolo prodotto. Nel digitale avviene il contrario. Se aumentano gli utenti di un software, sale il suo valore, ma anche la sua capacità di dare risposte migliori. Ciò permette all’impresa di guadagnare sempre di più in proporzione a quello che investe per accrescere l’offerta». Tutto sta dunque nell’avere sempre più utenti, e infatti le quattro “over the top” - come le chiamano gli esperti - puntano dritte al dominio nel loro settore.

SFIDA A DUE PER LA PUBBLICITÁ

Quella messa meglio per ora è Google. Nel suo mercato principale (le ricerche on line) ha di fatto il monopolio in quasi tutto il mondo occidentale: una condizione che le permette di gestire il 31,2 cento della pubblicità fatta in rete a livello globale. Lo sanno bene editori e fotografi, il cui business è calato proporzionalmente alla diffusione di Internet. Grazie ai profitti fatti con la pubblicità, che solo nell’ultimo trimestre hanno sfiorato i 4 miliardi di dollari, la società fondata da Sergey Brin e Larry Page - ribattezzata di recente Alphabet, holding che controlla tutte le attività - ha potuto investire in altre avventure dispendiose come i Google Glass (la cui commercializzazione è stata rinviata), la macchina senza guidatore (Google Car) o l’idea, che presto potrebbe diventare realtà nello Sri Lanka, di digitalizzare i Paesi offline montando dei ripetitori su piccole mongolfiere.
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L’unica vera concorrenza a Google, nella pubblicità, per adesso la fa il più piccolo dei colossi digitali, almeno in termini finanziari. Facebook l’anno scorso ha avuto un guadagno netto di 2,9 miliardi di dollari, poca cosa rispetto ai 14,4 miliardi di Google. Gli analisti prevedono però che questa differenza si assottiglierà, perchè il più diffuso social network al mondo ha un vantaggio. Se fosse uno Stato, oggi sarebbe il più popoloso: a giugno erano 1,49 miliardi gli utenti del software creato da Mark Zuckerberg come gioco per votare le ragazze più belle del college. Giocando giocando, la società ha già raggiunto quasi l’8 per cento della pubblicità on line, strappando due punti percentuali in un solo anno a Google, e ha appena superato il concorrente nel numero di persone veicolate verso siti di notizie.

Una scalata possibile grazie al boom degli smartphone, con cui sempre più utenti navigano senza bisogno di passare per un motore di ricerca ma entrando direttamente attraverso una app. È successo così che Facebook quattro anni fa fatturava 3,7 miliardi di dollari, mentre quest’anno dovrebbe arrivare a 17 miliardi; quasi il triplo della Pirelli. Una crescita possibile grazie a una caratteristica comune ai giganti digitali: mentre naviga, l’utente regala alla piattaforma un mare di informazioni personali che risultano preziosissime per chi vuole promuovere qualcosa.
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Modernità brutale la pubblicità conta poco per amazon, che con le tre sorelle di internet non condivide nemmeno l’origine californiana. L’ha fondata a seattle jeff bezos. Era il 1994 e il commercio on line era ancora roba da smanettoni. Oggi bezos è il quinto uomo più ricco al mondo e uno dei più potenti degli stati uniti, grazie anche all’acquisto del quotidiano “the Washington Post”. Il 23 luglio scorso, giorno in cui il nasdaq ha toccato il massimo storico, l’informatico americano ha guadagnato 7 miliardi di dollari in un’ora. Una ricchezza che ha fatto gridare allo scandalo opinionisti di ogni latitudine poche settimane dopo, quando il “New York Times” ha dipinto la sua azienda come un «posto di lavoro brutale» per via degli orari e delle pressioni che devono subire gli impiegati.

Di certo Amazon è la società che più di tutte ha sconvolto l’economia tradizionale. Oltre a essere diventato il primo operatore cloud, facendo da magazzino di dati informatici per migliaia di aziende, la compagnia macina utili soprattutto come piattaforma commerciale. Una catena di negozi che, per fatturato, è inferiore solo a Walmart. A colpi di investimenti in mega magazzini robotizzati in giro per il globo, Bezos ha messo fuori mercato parecchi negozi incapaci di competere su prezzi e rapidità del servizio. In Italia, anche per questo motivo, negli ultimi anni sono entrati in crisi catene come Unieuro, Trony e recentemente pure Mediaworld.
Monopolista globale

La società di ricerche Forrester ha calcolato che il commercio on line entro il 2020 toglierà il lavoro a un milione di venditori nei soli stati uniti. Probabile che molti di questi malediranno proprio Amazon. «nei grandi paesi il settore è dominato quasi sempre da loro. In italia, ad esempio, insieme a Ebay fanno il 50 per cento del mercato», sostiene roberto liscia, presidente del consorzio del commercio elettronico italiano (netcomm), anticipando i dati di una ricerca sul settore fatta insieme alla ecommerce foundation. 

Se c’è però un re della rivoluzione digitale, lo scettro spetta di gran lunga ad Apple. Basta un dato per dimostrarlo. L’azienda fondata da Steve Jobs, di cui molti avevano predetto la fine dopo la sua morte, con il capoazienda Tim Cook si è trasformata nella società più redditizia al mondo: 39,5 miliardi di utili netti l’anno scorso. Eppure, dei quattro colossi, Apple è l’unica che non fa della Rete il suo principale campo da gioco. Sebbene più piccola rispetto alla coreana Samsung, che vende più telefoni, Apple fa soldi soprattutto costruendo iPhone.

Beni materiali, quindi: ma sono stati proprio i suoi “telefoni intelligenti” a dare il via alla rivoluzione del mobile. La società di Cupertino ha sfruttato il primato per diventare la principale piattaforma per lo sviluppo delle app (insieme a Google) e sconvolgere il settore della musica con iTunes, al momento il più grande negozio di canzoni. Gli investitori apprezzano: negli ultimi cinque anni il titolo della Mela ha guadagnato più del 200 per cento. Soldi che hanno permesso all’azienda di investire in progetti ambiziosi come l’Apple Watch, l’orologio da poco arrivato in commercio in Italia.
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Qualcuno, guardando i grafici azionari degli ultimi giorni, potrebbe temere lo scoppio di un’altra bolla di Internet. Molti esperti invece pensano di no. Anzi: credono che il meglio debba ancora venire. «Le vendite on line rappresentano il 5 per cento del commercio mondiale, e quella quota può solo crescere», ha scritto “The Financialist”, la rivista della banca svizzera Credit Suisse, prevedendo che a beneficiarne maggiormente sarà Amazon, già dominatrice del mercato occidentale (la Cina è invece il regno di Alibaba). Discorso simile per Google e Facebook, che stanno puntando forte sui video per fare concorrenza nella pubblicità anche alla televisione. Il problema è che tutto questo potere ad alcuni non piace. «C’è un aspetto che accomuna gli over the top: nemmeno la più grande banca al mondo ha mai saputo così tanto dei propri clienti, e da questo deriva un potere che non ha eguali nella storia con rischi per i consumatori e la concorrenza», fa notare Andrea Rangone, coordinatore degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano.

BUONANOTTE CONCORRENZA

Un esempio delle conseguenze si è avuto quando, grazie alle rivelazioni di Edward Snowden, il mondo ha scoperto che alcuni big della rete come Google, Facebook e Apple fornivano dati personali dei loro utenti ai servizi segreti americani. Le cancellerie internazionali hanno avviato il contrattacco. L’anno scorso, durante la campagna elettorale, l’allora ministro dell’Economia francese, Arnault Montebourg, ha parlato chiaro: «Non vogliamo essere una colonia digitale dei colossi di Internet americani. In gioco c’è la nostra sovranità». L’idea si è diffusa rapidamente nel Vecchio Continente, con una particolare avversione nei confronti di Google.
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Margrethe Vestager, commissaria europea alla Concorrenza, ha messo sotto accusa il gigante di Mountain View per abuso di posizione dominante nelle ricerche online e ha avviato un’indagine per violazione delle regole antitrust da parte di Android, il sistema operativo di Google per smartphone. Le conseguenze sono potenzialmente devastanti. La compagnia californiana, che ha tempo fino al 30 agosto per presentare la sua difesa, rischia di pagare una multa da 6 miliardi di dollari, ma soprattutto di vedersi limitare sensibilmente la capacità di fare affari in Europa. Come Google, iniziano a sentire il fiato sul collo anche gli altri colossi, seppure per motivi diversi. L’Ue ha avviato delle indagini fiscali su Apple e Amazon, tacciate da più parti di pagare meno tasse del dovuto. E alcune nazioni, fra cui l’Italia, hanno messo sotto accusa Facebook per violazione delle norme sulla privacy.

Dietro lo scontro tra Europa e Stati Uniti c’è in realtà una battaglia politica globale. Come devono comportarsi gli Stati di fronte a questi nuovi giganti transnazionali? C’è chi dice, come l’economista Sacco, che non c’è molto da fare: «Gli over the top sono ormai istituzioni, sovrastrutture di cui non possiamo fare a meno. Più che chiedersi se è giusto o meno averle, bisogna imparare a sfruttarle, per esempio insegnando alle piccole imprese italiane a usare meglio Google per vendere all’estero». Altri, come Stefano Quintarelli, deputato di Scelta Civica e tra i pionieri di Internet in Italia, sostengono la necessità di un’azione della politica: «Per difendere il mercato, e con esso i diritti dei cittadini, bisogna intervenire per ridurre il numero dei monopolisti». Una parola, vista la loro potenza di fuoco.

ha collaborato ?Alessandro Longo