Carceri. Tatuaggi. Corpi. Coppie. In mostra a Roma le opere del grande fotografo Sergei Vasiliev. Che rivelano il lato segreto dei decenni sovietici (Foto di Sergei Vasiliev)
C’era una volta un poliziotto, nella provincia profonda dell’Unione Sovietica. Quell’uomo si chiama Sergei Vasiliev, è diventato uno dei più grandi fotografi russi, ha attraversato tutte le epoche del suo Paese e ora, a 78 anni, siede su un divano rosso al centro di Roma, a due passi da Piazza di Spagna. Si gode la mostra che la Galleria del Cembalo dedica fino al 13 febbraio a lui e a due suoi connazionali, Rozalija Rabinovic e Danila Tkachenko.
La sua storia comincia in un piccolo villaggio degli Urali. Il padre lavora la terra in un kolchoz: ma nel 1941 parte con un cavallo e non fa più ritorno, perché muore in guerra. Vasiliev continua a vivere in campagna finché per il servizio militare si trasferisce in città, nella vicina Chelyabinsk. In quel periodo avviene l’unico grande evento della storia di questa città: nel 1957 è infatti teatro di un grave incidente nucleare. Il regime però tiene tutto nascosto e infatti Vasiliev, durante il servizio militare, ogni giorno viene mandato nell’area della centrale come se nulla fosse successo.
È stato un vero comunista, Sergei Vasiliev? «Non nel profondo. A 20 anni non capivo niente di politica, ma se ti ribellavi al Partito non lavoravi. Allora ero nella contraerea e nel ‘60 partecipai all’abbattimento dell’aereo U2 del pilota americano Francis Gary Powers, che poi fu scambiato a Berlino sul “ponte delle spie”». Cos’era la Guerra Fredda vista dagli Urali? «Per noi l’Occidente non era un nemico, anzi era un posto in cui avremmo voluto viaggiare: ma solo i capi del Partito se lo potevano permettere». [[ge:rep-locali:espresso:285173775]] Il giovane Vasiliev vorrebbe studiare giurisprudenza, ma il destino decide di farne un capitano della polizia. Ogni giorno si occupa di stupri, rapine e omicidi. Forse proprio per questo il tempo libero lo riempie del loro contrario: la bellezza. Nel fotolaboratorio criminalistico e nella biblioteca della polizia si innamora della fotografia, e così comincia a frequentare il club cittadino. Da hobby diventa presto un lavoro. Nel ‘69 lascia la polizia e diventa fotoreporter per il giornale di Chelyabinsk. «Non si poteva parlare delle carceri e della cronaca nera», dice oggi: «Potevo raccontare solo di come si viveva bene nell’Urss e dei progressi della classe operaia». Ecco allora che la sua macchina ritrae ospedali, centri sportivi, scuole, per inaugurazioni e celebrazioni varie.
Da queste occasioni nascono alcuni dei suoi scatti più belli, anch’essi in mostra a Roma. Come quelli che nel ‘78, in una clinica di Mosca, documentano i parti in acqua realizzati con il metodo di Igor Charkovsky. E, nella Chelyabinsk del ‘79, gli altri nudi delle donne al consultorio o nelle saune russe, e infine delle atlete del nuoto sincronizzato che si allenano senza costume in piscina. Intimità collettive, nudi fermati in configurazioni laocoontiche e considerati scandalosi nell’Urss di allora: «Vinsi un premio a Mosca, ma quando si trattò di esporli in mostra vennero censurati».
I due reportage “Banja” e “Nascita” in qualche modo trovano la via dell’Occidente, e nel ‘77 e nell’81 vincono il World Press Photo (due dei 5 da lui conquistati in tutto). Un successo che Vasiliev può godersi solo in parte, visto che il Partito non gli permette di andare a ritirare i premi ad Amsterdam. «Non bastava neanche l’invito personale del Principe olandese», racconta oggi. «Che cosa c’è in Olanda che non puoi trovare qui? I drogati e le prostitute?», gli ridono in faccia le autorità, che non apprezzano le sue opere troppo “naturalistiche”. Soltanto una volta riesce a ricevere il premio, grazie a un capotreno compiacente.
Intanto in Urss, però, il clima sta cambiando. Arrivano Gorbaciov e la glasnost, le libertà si ampliano anche per i fotografi. Se prima la classe operaia doveva essere il suo primo soggetto, ora può sbizzarrirsi. Ripensando agli anni passati nelle carceri per condurre interrogatori, si ricorda allora di quei tatuaggi impressi sui corpi dei prigionieri, che gli apparivano come quadri su pelle. È il 1987. Riesce a entrare in carcere e a fotografare i prigionieri. Cicatrici, bende, volti disperati e orgogliosi. Molti dei tatuaggi rimandano alle gerarchie interne, altri hanno un significato anti-sovietico (un animale con la bocca spalancata indica ad esempio la rabbia contro il regime).
Negli anni successivi è inviato tre volte in Cecenia, ma deve rimanere nelle retrovie. «Ho sempre fotografato ovunque, in acqua, in terra e in aria, cercando la bellezza anche nel brutto», dice. Perché sempre foto in bianco e nero? «Perché sono più espressive, più autentiche, il colore è solo un orpello».
Gli chiediamo quali lo emozionino di più. Prima si ferma davanti a quella di una mamma in acqua con il suo bambino appena nato: «Erano i suoi primi momenti di vita. E il suo movimento ricorda quello di un astronauta nello spazio». Poi si concentra su un bacio tra un carcerato e una donna: «Si erano conosciuti per corrispondenza e si erano innamorati. Ho ritratto quel bacio il giorno in cui lui è uscito di prigione. Erano senza un soldo, e gli offrii il pranzo».
Quanto all’oggi, cosa pensa, questo ex poliziotto, di Vladimir Putin?: «Negli anni Novanta leader deboli ci hanno portato sull’orlo del disastro. Putin non sarà perfetto, ma grazie a lui la Russia si è risollevata», risponde. Però negli anni Novanta c’era più libertà, anche per l’arte, no? «Gli artisti oggi hanno anche troppa libertà e non sanno gestirla. Sono l’autocontrollo, la disciplina, il senso del limite a stimolare la creatività. Succedeva lo stesso per noi negli anni Settanta». E se infatti gli chiedi in cosa l’abbia aiutato la formazione da poliziotto, risponde: «Ad avere coraggio, ad essere forte, e ad avere disciplina. Prima ero solo un ragazzino del villaggio».
Vasiliev si sta godendo Roma con la nipotina. «Sapete dove posso trovare un rullino Kodak da 200 asa?», chiede: «Li ho già finiti, questa città ti ruba uno scatto ad ogni angolo». Mentre firma centinaia di stampe di altre sue fotografie - che appartengono, come quelle esposte, alla collezione di Francesco Bigazzi, ex corrispondente dell’Ansa da Mosca - spuntano altre immagini di tempi lontani, sempre in bianco e nero.
Un autoritratto meraviglioso del 1982 lo ritrae in banja con otto ragazze nude, con lui nel mezzo in cappello e cappotto nero, una specie di allegro Hugh Hefner sovietico in mezzo a studentesse-modelle per nulla intimidite. Donne piene e forti, disinibite, divinità laiche della provincia dell’Urss. «Era la rigidità sovietica che le spingeva a liberarsi, anche davanti al mio obiettivo. Come facevo a convincerle a farsi ritrarre senza vestiti? Ma erano loro a invitarmi!», conclude ridendo.
Nei suoi scatti c’è il poliziotto che ritrae i criminali, ma c’è anche l’uomo che ama le donne; e quello che possiede la dolcezza per immortalare un parto. Insieme la violenza e la bellezza della Russia. Nelle foto esposte a Roma si confondono galeotti tatuati e ragazze nude in acqua. Apparentemente, due mondi opposti. Eppure, a ben vedere, raccontano la stessa storia. Sono uomini e donne che stanno in un luogo chiuso (il carcere, la piscina, il consultorio) e che attraverso i propri corpi - una delle poche proprietà private a quei tempi - cercano di esprimersi, cercano la libertà, la propria forma di dissidenza all’interno della grande prigione sovietica.
Liberi da divise e dai simboli del Partito, li senti sussurrare fieri mentre contraggono i muscoli, le senti schizzare l’acqua mentre nuotano allegre. È un misterioso canto che arriva dall’era dell’Urss, e che racconta l’eterna dialettica tra libertà e prigionia, tra creatività e disciplina, che ancora oggi caratterizza quella terra e quelle persone.