Parla Nabil Khalil, che dopo la repressione della rivolta pro-Morsi ha passato due anni e mezzo nelle carceri egiziane. Racconta torture e maltrattamenti a cui vengono sottoposti gli oppositori del regime. E afferma che a suo parere non sarà possibile far luce sul caso del ricercatore italiano ucciso: "Di Regeni ne sono stati uccisi migliaia. Un massacro che è tuttora in corso"

Per Nabil Khalil, egiziano 39enne emigrato a Milano, quella del luglio 2013 doveva essere solo l’ennesima vacanza estiva al Cairo. In quei giorni però in Egitto si è scatenato un inferno che ancora brucia. Era passato un anno esatto dall’elezione democratica di Mohamed Morsi, il presidente leader dei Fratelli musulmani.

La crisi economica e una discussa riforma costituzionale avevano portato di nuovo in piazza milioni di persone. Dando così la possibilità ai militari, guidati dal generale Abd al-Fattah al-Sisi, di rimuovere e arrestare il presidente. L’ennesimo colpo di Stato che si è trasformato in una feroce repressione. E Nabil Khalil è stato una delle tante vittime. «Quando ho visto la notizia della sparizione di Giulio Regeni, non ho avuto un minimo dubbio su chi fossero i responsabili. Perché quello Stato di criminali mi ha arrestato, interrogato, torturato e imprigionato nei bunker per due anni e mezzo. Sono innocente ma di questo nessuno si è mai preoccupato. Perché la mia colpa è quella di non essere allineato» racconta Khalil all’Espresso. Per quattordici anni a Milano ha portato avanti, con alcuni soci, un’impresa edile. Nel 2013 la sua vacanza al Cairo, interrotta da un golpe militare, si è trasformata in un incubo. Ne è uscito vivo ma fortemente segnato. Fisicamente e moralmente.
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Cosa le è accaduto in Egitto nel 2013?

«Non ci siamo voluti arrendere all’idea che tutto potesse essere di nuovo spazzato via e che sia cancellato quanto conquistato con la primavera araba. Siamo dunque usciti a manifestare per le strade del Cairo. Tantissimi giovani, disarmati, con nessuna intenzione di fare del male. Io sono rimasto coinvolto nella prima rivolta di piazza Ramsis, il 16 luglio 2013. Eravamo in strada a chiedere il ritorno della democrazia. Siamo stati circondati dai militari che hanno cominciato a sparare. Non solo molotov e gas lacrimogeni ma anche proiettili. Decine i morti. Io facevo parte dei 104 arrestati».
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Con quali accuse?

Mi tornano i brividi solo a ripensarci. Ci hanno portati via come dei criminali. Con accuse pesantissime: omicidio plurimo e danneggiamento. In sostanza siamo stati incolpati di avere ucciso chi manifestava al nostro fianco. In realtà tutti sanno che gli assassini sono i militari. Personalmente sono stato accusato della morte di un giornalista, Ahmed Salah, avvenuta durante la manifestazione e di un’altra persona deceduta addirittura il giorno prima. Insomma era lampante la nostra totale estraneità a quanto ci veniva contestato».


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«E’ iniziato il mio inferno. Un incubo durato due anni e mezzo. Dalla piazza ci hanno portati al commissariato del quinto distretto del Cairo. Ci hanno tenuti quindici giorni in un bunker. Persino per gli animali sarebbe stata una punizione. Eravamo in 23, senza aria e con una luce minima. Non si respirava. Ognuno di noi aveva a disposizione una ventina di centimetri di spazio. Potevamo dormire solo sul fianco, allineati come sardine. Il cibo ce lo buttavano per terra, l’acqua sembrava provenire dagli scarichi. Le temperature superavano i cinquanta gradi, si moriva di caldo. E non era nemmeno la parte peggiore».

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«Gli interrogatori. Ciò che ha mostrato l’autopsia di Giulio Regeni in parte l’abbiamo vissuto anche noi. Tutte le volte che sono stato nella stanza degli interrogatori ero sempre ammanettato e bendato. Non potevo vedere nulla. Sentivo solo le voci dei miei torturatori. A loro non sono mai interessate le mie risposte. Avevano già deciso che ero colpevole e che dovevo essere punito. L’interrogatorio era una parte della punizione. La prima e non di certo l’ultima. Alla tortura fisica si sommava quella psicologica. In tutto il tempo passato nel bunker abbiamo sempre sentito le urla delle persone che venivano torturate. Altri innocenti come noi. Quelle voci le ho ancora tutte dentro di me».

Passati i quindici giorni al quinto distretto, cosa è cambiato? Siete stati trasferiti?

«Per quanto ci poteva sembrare difficile, la nostra situazione andava peggiorando. Ci hanno portati alla prigione di Abu Zaabal, una delle peggiori d’Egitto. Qui le guardie hanno un rito per accogliere i nuovi arrivati. Si dispongono su due file, lasciando un corridoio per il passaggio. Lo hanno fatto anche con noi. Ognuno di loro ci ha colpiti con ciò che voleva: pugni, manganelli, calci, sputi. Per una decina di giorni non abbiamo visto la luce. Ci hanno tenuto negli stanzoni con criminali di ogni genere. E devo confessare che questi sono comunque sempre stati più gentili e umani delle guardie. Inoltre noi ci siamo capitati durante il periodo della rivolta di Rabiaa. Quando è stata sgominata la rivolta con il sangue alcuni manifestanti sono stati portati da noi. Due sono stati uccisi dalle guardie sotto i nostri occhi. In 37 invece sono rimasti rinchiusi nel cellulare della polizia per sei ore all’esterno della prigione. Quando hanno protestato per il caldo sono stati intossicati con i gas. Sono morti quasi tutti».

Avevate contatti con il mondo esterno? Era possibile ricevere visite?

«Visite? Dieci minuti ogni quindici giorni. Separati dal filo spinato. I miei familiari facevano cinquecento chilometri di strada per potermi vedere dieci minuti. Anche questa è stata una delle torture che abbiamo subito. Una delle peggiori perché coinvolgeva anche la famiglia».

Intanto il processo andava avanti?

«Dopo tutto questo, non eravamo ancora stati portati davanti a un giudice. Abbiamo passato tre mesi e mezzo ad Abu Zaabal, poi siamo stati trasferiti nel carcere per le indagini, costruito praticamente dagli inglesi. Pioveva dentro le celle, eravamo in 45 in una stanza che dovrebbe ospitare al massimo 15 persone. Ci siamo rimasti sette mesi. Poi è arrivata la condanna: dieci anni. Ed è scattato un nuovo trasferimento. Siamo stati portati a Wadi el Netrun, un complesso di prigioni. Io sono stato destinato al 430. Ero in mezzo ai più pericolosi criminali del Paese. Fisicamente soffro ancora per il periodo trascorso in quella che era a tutti gli effetti una tomba».

Com’è finita?

«Dopo un anno il processo è stato annullato e siamo stati liberati in attesa che venga ripreso. Sono riuscito a lasciare l’Egitto e a tornare in Italia. Ovviamente, se rimettessi piede al Cairo probabilmente mi riporterebbero di nuovo in quell’inferno. Quattro carceri in due anni e mezzo. Ho visto gente morire sotto i piedi delle guardie. Molti altri sono usciti paralizzati dalle torture. Ora temo ogni giorno ritorsioni per la mia famiglia, considerata anche questa mia testimonianza».

Dalla scomparsa di Giulio Regeni sono passati nove mesi, c’è speranza che si arrivi alla verità?

«Mi dispiace affermarlo ma non c’è alcuna speranza. Sono dei criminali e purtroppo tutti i governi che continuano a tacere davanti a questi crimini sono complici. Perché di Regeni ne sono stati uccisi migliaia. Un massacro che è tuttora in corso».