A Torino la scrittrice israeliana presenta il suo romanzo 'Borderlife'. In patria ha creato un caso politico quando il ministero dell'Educazione lo ha escluso dai programmi del liceo. Racconta una storia d'amore tra una giovane israeliana e un artista palestinese. Senza lieto fine
Il suo romanzo in Israele è diventato un caso politico. Ma parlare con
Dorit Rabinyan del suo
Borderlife (Longanesi), che la scrittrice israeliana presenta al Salone del Libro di Torino domenica 15 maggio è andare ben oltre la polemica mediatica.
E' piuttosto compiere con lei un viaggio complicato, per molti versi doloroso, nelle complessità dell'identità mediorientale. Cresciuta in una famiglia di ebrei d'origine iraniana, è già nota in Italia per il suo
Spose Persiane (Neri Pozza). In quel romanzo, spiega, ha iniziato a interrogarsi sull'identità. “Ero più giovane e avevo bisogno di fare i conti con le radici, di girare intorno a quella parte di me stessa prima di confrontarmi con tutto il resto. Da lì ho cominciato a riflettere sulla mia identità stratificata. Sull'essere una donna del Medioriente. A chiedermi: quanto sono davvero libera? Quanto sono condizionata, formata, costretta dalla cultura da cui provengo, dalla mia educazione israeliana? E che cosa significa per me l'altro, quest'entità araba che ci circonda da ogni lato? E che cosa significa il rapporto con l'altro per eccellenza, con i palestinesi che vivono accanto a noi?”.
Una sorta di inchiesta interiore che ha spinto all'estremo in
Borderlife. Siamo a New York nell'inverno del 2002: Liat, una giovane ricercatrice israeliana e Hilmi, un coetaneo palestinese di Hebron, si incontrano in un bar. Si innamorano come ci si innamora a vent'anni, febbrilmente, e all'inizio sembra che il mondo si fermi per osservare il loro amore, dilatando le loro notti e i loro giorni. Ma il lieto fine, come lo si intende in un convenzionale romanzo d'amore, qui non è concesso. E Dorit Rabinyan, nel discutere della sua scrittura e di molto altro, racconta perché.
Lei ambienta la sua storia d'amore tra l'israeliana Liat e il palestinese Hilmi nel 2002 a New York. Perché questo scenario? E' una storia ispirata in qualche modo alla sua vita?Il libro è dedicato a un mio caro amico palestinese, Hasan Hourani, scomparso nel 2004. Ci siamo frequentati quando entrambi vivevamo a New York nel 2002. Faceva parte di un gruppo di giovani artisti palestinesi: era il più dotato, il più carismatico di loro. Ma in
Borderlife l'ho reiventato, così come ho reiventato Liat, il personaggio femminile. Perché è necessario alla finzione letteraria. Di un personaggio il romanziere deve poter esplorare tutto, anche i lati oscuri, deve poterlo condurre dove vuole. E per questo deve distaccarsi dalla memoria delle persone reali. Non è facile scrivere dei morti. Per quel che riguarda New York, è il luogo ideale in cui entrambi posso sentirsi liberi, almeno in parte, di innamorarsi. Nel romanzo c'è un solo momento in cui Liat si permette di immaginare una vita in America con Hilmi: una grande casa con lo steccato bianco, la macchina, i bambini nel prato. Ma è una fantasia nutrita dalla pubblicità e dai film. Realmente, Liat non ce la fa a immaginare che la loro storia possa andare bene. E' una storia ambientata nel 2002, ma 'sconta' lo sguardo di qualcuno che sa cosa succede dopo, di un narratore che sa più dei suoi personaggi. Parla di amore e giovinezza, ma dalla prospettiva della maturità.
Il titolo Bordelife, linea di confine, può essere inteso in molti modi. L'intera esperienza di Israele è un'esperienza di confiniRiuscire a mantenere un'identità, senza scomparire culturalmente, senza essere inglobati da chi ci viveva accanto, è stata l'esperienza centrale della diaspora. Fare parte di una comunità dà la forza di sopportare il ghetto ma al tempo stesso ti condiziona, ti lega, e questo fa parte del dna ebraico. Poi c'è Israele. Che, se si eccentuano quelli con l'Egitto e la Giordania, non ha confini definiti: né con il Libano, né con la Siria e ovviamente non con i Palestinesi. Questa indefinitezza non è deleteria solo per i Palestinesi, lo è per noi: condiziona la nostra esperienza quotidiana. In qualche modo, il confine è ciò che ti permette di sapere dove inizi e dove finisci. Se non lo sai, passi la vita ad avere paura di essere sopraffatto. Ed è quello che sta accadendo a noi israeliani. Siamo sempre più divisi in due tribù, la destra religiosa e messianica e la parte liberale della società, con due visioni completamente diverse di quello che questo Paese deve essere.
Come ha vissuto il fatto che il ministero dell'Istruzione di Naftali Bennet ha impedito che il suo libro fosse inserito tra le letture consigliate nei licei israeliani?Il gruppo di potere intorno a Netanyahu vuole imporre una certa idea di Israele anche attraverso l'educazione. Ma sono stata molto confortata dal grande sostegno che ho ricevuto: è il segno che nella nostra società la libertà d'espressione è considerata ancora una parte irrinunciabile della democrazia.
In molti paesi europei e negli Stati Uniti capita che intellettuali, studiosi, artisti israeliani subiscono la pressione degli attivisti del Bds (Boycott and Disinvestment). Che cosa ne pensa?Non riesco a capire gli israeliani che si indentificano con il Bds. Non riesco a capire in che modo pensino che il Bds potrebbe portare qualcosa di buono alla causa della pace. E non è ammissibile mettere in questione l'esistenza stessa di Israele.