Intervista al regista statunitense. Il cinema, i soldi, Benigni, New York. E spiega come con la sua ultima opera ha tentato l’impossibile: mettere in scena la poesia

I l regista coreano Park Chan-wook una volta ha invitato a Seul per una retrospettiva il collega giapponese Seijun Suzuki, autore di thriller che anche io amo molto. Alla fine del suo discorso una ragazza dal pubblico lo ringrazia per l’amore dimostrato per la settima arte. Al che Suzuki le risponde: Mi spiace signorina dell’equivoco, io faccio questo mestiere per soldi. I registi sono tutti diversi e io mi considero un film-maker amatoriale, perché amo il cinema, mentre se fossi un professionista vorrebbe dire farlo per denaro. E quando mi dicono che i miei film sono amatoriali lo considero un complimento».

Non c’è nulla di fasullo nell’understatement con cui Jim Jarmusch parla di sé: 63 anni, regista di culto di pellicole come “Daunbailò”, “Dead Man” e “Ghost Dog - Il codice del samurai”, è uno di quei pochi autori che nel folle mondo del cinema, fatto di interviste mordi e fuggi da 10 minuti, chiede che gli incontri con i giornalisti durino almeno 45 minuti. «È un privilegio poter parlare di ciò che amiamo ma che certo non cambierà il mondo», dice.
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Al festival di Cannes ha presentato il suo ultimo lavoro: “Paterson”, la cittadina in cui si svolge la monotona routine dell’omonimo autista (Adam Driver) che ogni giorno guida l’autobus ascoltando le chiacchiere dei passeggeri, per rincasare la sera dalla fidanzata Laura (Golshifteh Farahani). Mentre lei è presa da mille progetti, lui occupa il tempo a scrivere poesie, che gli vengono in mente mentre impugna il volante o porta a spasso il cane. «Non ho mai conosciuto qualcuno che riuscisse a vivere pubblicando poesie», spiega Jarmusch: «Molti poeti che amo avevano un altro lavoro: William Carlos Williams era un medico, Wallace Stevens era un dirigente assicurativo e Frank O’Hara, che era curatore del MoMA di New York, scriveva durante la pausa pranzo».

Quando è nato il suo interesse per la poesia?
«Nella tarda adolescenza sognavo di diventare un poeta, perché non era un lavoro che si faceva per soldi, ma per amore della forma letteraria. Da ragazzino leggevo i francesi tradotti e poi ho scoperto gli americani come Walt Whitman, Hart Crane, Stevens e Williams. Trasferitomi a New York dall’Ohio, ho studiato con Kenneth Koch alla Columbia University e ho scoperto la scuola newyorkese: il loro manifesto, scritto da O’Hara, prevedeva di non scrivere una poesia per il mondo intero, ma per una persona sola, come nel caso di “This is just to say” di Williams. I newyorkesi erano divertenti ed esuberanti, non sempre seri. Una volta Koch mi chiese di tradurre una poesia di Rilke e quando gli dissi che non conoscevo il tedesco, rispose: Te l’ho chiesto proprio per questo!».

Jim Jarmusch con il cast di 'Paterson'


Nel suo film ci sono diversi riferimenti all’Italia. Come mai?
«Quando parli di poesia come fai a non citarla? Ho imparato tanto da Roberto Benigni, che è un esperto di Dante: scriveva in vernacolare ed era quasi un artista hip-hop, perché usava il linguaggio della gente comune».

Lei però cita anche Gaetano Bresci…
«Sì perché prima di passare alla storia si stabilì proprio a Paterson, in cui si raccolsero diversi anarchici. La città ha un passato interessante: è stata il primo centro industriale degli Stati Uniti, con fabbriche tessili, e ha visto le prime proteste dei lavoratori. Nel 1838 duemila operai scesero in piazza, la metà erano bambini irlandesi che all’epoca lavoravano 13 ore al giorno. Ma è anche la città di poeti come Williams e Allen Ginsberg. L’ho scelta per le sue contraddizioni: sembra sospesa tra speranza e disperazione».

Anche lei nel 2013 dopo avere girato “Solo gli amanti sopravvivono”, era demoralizzato e disse che voleva smettere. Perché?
«Trovare il denaro, allora, era stato un incubo e avevo odiato dover ricostruire Detroit in studio, per motivi economici. Girare in interni per me è come tentare di addomesticare un lupo. Detesto cercare i finanziamenti per un nuovo film. All’epoca ero al verde ed è ancora così».

Paterson però è prodotto dal colosso delle vendite online Amazon.
«Sono felice di questo, perché mi hanno concesso libertà totale di scelte, anche sul casting, che da regista indipendente cerco. Però è una corporation e forse se il film incasserà un miliardo di dollari io ne guadagnerò cinque: è frustrante, ma ormai questo business è così, mentre anni fa la ripartizione dei proventi era più equa».

Quindi ha scelto lei Adam Driver, ormai diventato famoso grazie a “Star Wars”?
«L’ho visto in un paio di film indipendenti e mi è piaciuto subito il suo modo di parlare e muoversi in maniera naturale, perché amo gli attori che non agiscono ma reagiscono. Ho scoperto solo dopo che era in “Star Wars” e le dirò che non ne ho mai visto uno. Conosco la trama e i personaggi, contro la mia volontà, perché mi hanno fatto il lavaggio del cervello».

Lei è un’icona di New York. Come sta la sua città?
«È diventata troppo rumorosa, c’è il triplo di persone rispetto agli anni ’70, l’unica cosa che conta è il denaro. La cultura underground nasce dove ci sono giovani che hanno pochi soldi e così nel tempo si è spostata da Manhattan a Brooklyn, e poi quando è diventata troppo cara si è mossa nel Queens e forse finirà in New Jersey. Gli artisti non hanno soldi e tutte le metropoli, come Londra e Parigi, sono ormai a misura di chi è ricco. A New York conto di passare sempre meno tempo».

In che senso?
«Già ora sto una settimana al mese in una casetta nella Hudson Valley, vicino ai monti Catskills, circondato dalla natura, orsi, coyote e cervi. Ma presto trascorrerò lì la gran parte del tempo e solo una settimana al mese New York».

La tranquillità favorisce la creatività?
«Come dimostra la storia di O’Hara si possono scrivere poesie anche a New York. Però io ho troppi amici di ogni parte del mondo, e praticamente ogni giorno c’è qualcuno che mi chiama per venirmi a trovare. Quando sto in montagna ho la scusa per dire che non posso tornare in città, sempre se mi trovano, perché il cellulare a casa mia non prende. E così ho il silenzio che mi permette di concentrarmi».

Quanto ci mette a scrivere un film?
«Le idee rimangono nel cassetto a lungo, quella di “Paterson” risale a 20 anni fa. Raccolgo tantissimi appunti, ma poi quando scrivo sono veloce: stavolta ci sono volute tre settimane. Le sceneggiature sono la forma più stupida di scrittura al mondo, perché sono come planimetrie di un palazzo, ma io il palazzo preferisco vederlo dal vivo. Perciò non mi piace lavorarci troppo; piuttosto le cambio a mano a mano che un attore viene scritturato o trovo una nuova location. Lascio gli attori improvvisare i dialoghi, perché penso che possano migliorare ciò che ho scritto».

Negli anni ha affinato una routine, come il protagonista di “Paterson”?
«Sì, ma cambia se sto scrivendo, girando oppure montando. Di solito mi alzo, bevo un tè, pratico tai chi, poi faccio una passeggiata e vado in ufficio. Però è una routine da privilegiato: da giovane ho lavorato per due anni in fabbrica alla catena di montaggio nove ore al giorno e so cos’è il lavoro duro».

I suoi genitori avrebbero voluto per lei un lavoro più stabile?
«Mia madre mi ha sempre sostenuto, mio padre mai. E quando gli ho mostrato “Strangers than Paradise” mi ha chiesto se mi fossi dimenticato dei pezzi, perché la trama non aveva senso. Lui non aveva senso estetico, amava la musica ma non distingueva Mozart da Mahler, anche se più in là negli anni mi ha apprezzato».

Ora che ha un’età in cui è più facile guardare indietro che davanti a sé, cosa vede?
«Da giovane forse ero più sarcastico, oggi l’ironia mi interessa meno, perché sento che la vita è fragile e passeggera per tutti, su questo pianeta che stiamo distruggendo. E avvicinandomi al buddismo ho imparato a stare nel “qui e ora”, e ad accettare ciò che non posso controllare. Perché quando sei sul set lavori da pazzo, come se fosse la cosa più importante al mondo, ma non lo è. Perciò stavolta ho raccolto la troupe e gli ho detto: Datevi una calmata, stiamo solo facendo un cazzo di film!».