Varsavia e Budapest rimangono geograficamente nel cuore del Vecchio continente, ma sono politicamente due corpi sempre più estranei al resto dell'Unione europea. Vista con fastidio e a volte con ostilità

Victor Orban
«Le porte della Polonia sono aperte all’Europa, faremo di tutto per non deludere», giurava il presidente Aleksander Kwa?niewski in una notte del maggio del 2004, mentre il bicolore rosso e bianco di Varsavia e la bandiera blu a dodici stelle sventolavano insieme, su piazza Pilsudski. Nello stesso momento ma in un’altra piazza, quella degli Eroi di Budapest, si potevano ascoltare simili rassicurazioni. «L’Ungheria è tornata in Europa, a quei valori che ha chiamato suoi negli ultimi mille anni», le parole dell’allora premier magiaro Peter Medgyessy.

Sono passati tredici anni da quando dieci nuovi Paesi, ben otto dell’Europa centro-orientale, entrarono nell’Ue. Da allora, il Vecchio continente ha cambiato faccia, tra crisi politiche ed economiche, profughi, terrorismo e Brexit. Ma anche a Varsavia e Budapest gli umori sono ben diversi dal maggio 2004, almeno nei gangli del potere. Le due capitali rimangono geograficamente nel cuore del Vecchio continente, ma sono politicamente due corpi sempre più estranei al resto di una Unione europea vista con fastidio, a volte con ostilità. E sempre più sincronizzati su alcuni temi fondamentali, come una vera squadra, in chiave anti-Ue.

L’Ungheria del premier populista Viktor Orbán guida da sette anni l’offensiva, dando battaglia sulla crisi migratoria, con il muro anti-migranti al confine, mal digerito da Bruxelles, e con il rifiuto di un pugno di richiedenti asilo nell’ambito del programma di ricollocamento da Grecia e Italia. Budapest - appoggiata da Varsavia - non permetterà all’Ue di farla diventare «un Paese d’immigrazione», ha ammonito Orbán.

La guerra tocca però altri fronti, dalle controverse riforme del sistema giudiziario avversate dall’Ue al controllo dei media, fino alla libertà d’azione delle Ong, della società civile e delle università che ricevono fondi dall’estero.

Fronti che non accennano a essere smobilitati e che, da due anni, sono in parte condivisi anche dalla Polonia di Beata Szydlo e del leader del partito di governo Diritto e Giustizia (PiS), Jaroslaw Kaczynski, vero architetto della svolta populista e di destra a Varsavia, ammiratore della “linea Orbán”. Principale terreno di scontro Ue-Varsavia, le controverse riforme del sistema giudiziario, che ne minerebbero l’indipendenza. Su tutto, la spada di Damocle sempre attuale dell’articolo 7 del Trattato che prevede la sospensione del diritto di voto, difficile da concretizzare contro Varsavia causa sicuro veto di Orbán. «I leader dell’Ue hanno solo motivazioni politiche, non fattuali, quando attaccano la Polonia sulle riforme», ha attaccato a gamba tesa Szydlo prima di incontrare Orbán. Parole che aiutano a comprendere il crescente distacco tra i due “ribelli” dell’Europa centrale e Bruxelles.

Ma cosa attendersi dal futuro?
«Orbán probabilmente non ha ancora deciso» i suoi prossimi passi, racconta István Hegedüs, intellettuale magiaro e presidente della Hungarian Europe Society, ai tempi della svolta democratica ex membro di Fidesz, il partito di maggioranza a Budapest, e conoscitore della personalità del premier ungherese. Ma sul tavolo ha varie opzioni. Quella di «combattere all’interno del Partito popolare europeo», di cui Fidesz fa parte, «per un’Europa meno unita, di Stati-nazione. Oppure quella di creare una internazionale populista e illiberale, stringendo alleanze anche con partiti di estrema destra dell’Europa occidentale o infine quella di considerare l’uscita dell’Ungheria dall’Ue, dopo le elezioni magiare del 2018». Difficile però immaginare un “Huxit” visti i cospicui fondi che Budapest - ma anche gli altri Paesi dell’Est - ricevono da Bruxelles e anche per il «forte sostegno che l’integrazione Ue ha in Ungheria, ancora maggiore in Polonia», aggiunge Hegedüs. Più probabile rimane un approccio «Hungary First», alla Trump, di patriottismo economico e geopolitico come suggerito dal ministro degli Esteri magiaro, Peter Szijjarto, in un recente viaggio a Washington. Difficile fare previsioni, si possono però immaginare «più dichiarazioni critiche, qualche risoluzione, ma finché Fidesz», il partito di Orbán, «rimane componente del Partito popolare europeo non dovrà aver troppi timori», conferma anche il politologo Peter Kreko. L’unica cosa che può spaventare Budapest è la possibile «condizionalità dei fondi» europei - 86 miliardi dal 2014 al 2020 per Varsavia, 25 per Budapest - al rispetto dei processi democratici, ma il gran passo non è ancora in agenda. Rischia forse un po’ di più in questo senso la Polonia, «diventata un problema ad alto livello» in Europa proprio perché guidata dal PiS, «fuori dal mainstream, membro dei Conservatori e riformisti europei» e non del Ppe.

Polonia che da molto «si è incamminata sul percorso magiaro, ha fatto grandi passi in questo senso e ci sono ragioni di preoccupazione», conferma Piotr Buras, numero uno del think tank European Council on Foreign Relations a Varsavia. «L’alto livello di solidarietà» tra Budapest e Varsavia non è però totale e si limita ad alcuni aspetti fondamentali, «sovranità, Stato-nazione, stato di diritto, rifiuto di ogni ulteriore integrazione, politiche di migrazione e politiche sociali».

Ma «ci sono anche tanti punti di disaccordo», aggiunge Buras, «come su energia e sul rapporto con la Russia», con Budapest che mantiene stretti legami con il Cremlino, scelta avversata dalla Polonia. E poi l’Ungheria è molto più pragmatica nella Ue, con un rapporto discreto con la Germania, «mentre l’esecutivo polacco ha da poco messo sul tavolo la questione delle riparazioni per i danni subiti a causa della Seconda guerra mondiale».

Varsavia che, nel suo conflitto con l’Ue, non ha però intenzione di spingersi troppo oltre, magari verso qualche forma di “Polexit”. «Non ci sono incentivi in questo senso per Kaczynski e la società è apertamente favorevole all’appartenenza alla Ue. Quello che è più probabile accada - chiosa Buras - è un crescente risentimento verso l’Ue, dato che i benefici in futuro saranno minori. Ci saranno molti meno soldi per la Polonia e meno vantaggi». Inoltre, Varsavia «è poco coinvolta nell’integrazione in molte significative aree come immigrazione e politiche sociali, Eurozona. Lo scenario più realistico dunque non è quello di un Polexit, ma di un’uscita dell’Ue dalla Polonia». Ciò non vuol dire che «la Polonia sarà esclusa dall’Unione, ma che la vera Ue sarà in futuro da un’altra parte, fatta di cooperazione su temi su cui la Polonia non è pronta a impegnarsi».

Ma su cosa si basa questo crescente senso di distacco, tra Ungheria e Polonia e il resto dell’Ue? Forse anche su ragioni storiche. E su errori fatti dal nucleo duro dell’Unione. «La divisione tra Est e Ovest è stata costruita culturalmente nel corso dei secoli, ma è qualcosa che oggi nondimeno esiste. Polonia e Ungheria rimangono storicamente Stati post-comunisti, anche 28 anni dopo» la caduta della Cortina di ferro, spiega lo storico Larry Wolff, autore del capitale saggio “Inventing Eastern Europe”. Lavoro in cui teorizzò il peccato originale dell’Europa occidentale, quello di essersi avvicinata all’Est, già a partire dall’età dell’Illuminismo, con supponenza e senso di superiorità, a volte con disprezzo. Polonia e Ungheria «sono nazioni molto diverse da quelle entrate prima del 2004, con un approccio differente al progetto europeo», illustra Wolff. La lettura dei due Stati come «democrazie fallite», tuttavia, non lo convince, perché «si potrebbe dire lo stesso oggi del mio Paese, gli Stati Uniti, o dell’Italia, che si sarebbe potuta definire democrazia a rischio in certi momenti dei passati due decenni».

La cosa che «mi sorprende di più è quanto le leadership di Ungheria e Polonia siano pronte a manipolare sentimenti anti-europei in maniera demagogica, orientandoli contro la democrazia e contro la stessa Europa». E a soffiare sul fuoco del concetto nazionalistico «che i propri valori siano in parte compromessi dall’Europa». Lo fanno, probabilmente, anche per una sorta di rivincita. I negoziati lunghissimi e complicati prima dell’adesione e il paternalismo di Bruxelles potrebbero aver creato «un rancore», ancora oggi presente nei due Paesi. Quel paternalismo offensivo ben rappresentato dalle parole di Jacques Chirac, nel 2003, quando i Paesi dell’Est Europa si schierarono a fianco di Washington in procinto di invadere l’Iraq. «Hanno perso un’occasione per stare zitti», disse quella volta il presidente francese, addirittura minacciando conseguenze per la loro futura adesione e scioccando e irritando i futuri partner Ue. Che hanno la memoria lunga.