Il fondatore sognava un’India pacifica, democratica e interreligiosa. Oggi è diventata una tecno-potenza militare, xenofoba e dominata dai fondamentalisti hindu

Il premier indiano Narendra Modi
«Per noi, governare non significa guadagnare voti o vincere le elezioni. La nostra priorità è il benessere della nazione. La nostra cultura è diversa perché per noi lo Stato è più grande del partito». Così parlò il premier indiano Narendra Modi a Benares, Varanasi per la toponomastica ufficiale, illustrando a una platea di contadini le ultime misure emanate dal governo in materia di allevamento e agricoltura. Senza specificare però a quale Stato o nazione si riferisse, o a quale partito.

Perché se è vero che il benessere della nazione è l’interesse primario del governo, è vero anche che all’interno della nazione stessa si levano voci sempre più preoccupate dall’andamento delle cose e dallo stato della cosiddetta più grande democrazia del mondo. Mai come adesso infatti, secondo la quasi unanimità degli intellettuali e degli studiosi indiani, l’India è stata più frammentata e divisa, così come le destre al governo, e mai come adesso l’India ha proiettato un’immagine così schizofrenica di se stessa al mondo. L’attuale governo di destra, eletto a forte maggioranza, è andato al potere con un’agenda di stampo riformista i cui punti chiave erano di natura essenzialmente economica e di politica estera, e che mettevano al primo posto il benessere e la crescita economica della nazione.
Illustrazione di Dario Duluoz

Le riforme interne, a parte la discussa e discutibile demonetizzazione, hanno stentato a decollare. La politica estera, fiore all’occhiello di Modi e dei suoi, è stata invece messa al primo posto. E negli ultimi tre anni, l’India ha rivestito e riveste un ruolo sempre maggiore nella politica internazionale. Diventando l’alleato fondamentale degli Stati Uniti nell’area geopolitica e proponendosi come superpotenza alternativa allo strapotere cinese nella regione. Durante il suo mandato, dicono i suoi detrattori, Modi ha passato quasi più tempo all’estero che in patria: inaugurando un deciso cambio di rotta rispetto alla tradizionale e quasi autistica politica estera di New Delhi.
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Ha stretto accordi commerciali, alleanze politiche e militari, rotto vecchie alleanze e creato nuove e inedite coalizioni. In chiave anti-cinese e anti-pachistana, certamente, ma anche con l’ambizione di svecchiare e modernizzare l’immagine dell’India attirando investimenti esteri e giocando più o meno alla pari sul tavolo dei grandi. Non solo: alle Nazioni Unite il ministro degli esteri Sushma Swaraj, durante un durissimo discorso contro il Pakistan, ha dichiarato che l’India «produce medici e ingegneri» oltre a essere «una riconosciuta superpotenza mondiale in campo tecnologico e informatico». Tutto vero, visto che ormai da anni il settore informatico e l’outsourcing crescono di un buon 13 per cento annuo, che l’India è il secondo esportatore mondiale di tecnologie informatiche e che lo sviluppo di programmi, in tutto il mondo, non può più prescindere dai tecnici e dai programmatori indiani. Non appena al potere, Modi ha lanciato la campagna “Digital India” per digitalizzare e connettere tutto il paese, incluse le aree rurali dove spesso non esistono nemmeno la corrente elettrica o l’acqua corrente.
Eric Pujalet Plaa

La modernizzazione dell’India in termini tecnologici e di infrastrutture, il passaggio diretto dal Medioevo al futuro, è stato uno dei cavalli di battaglia del premier in campagna elettorale. A questo è corrisposta però, secondo analisti e osservatori, una involuzione in termini culturali all’interno del paese, suscettibile di conseguenze potenzialmente devastanti. È cominciato in sordina, quando la maggior parte degli stati indiani, uno dietro l’altro, ha cominciato a mettere al bando la macellazione e la vendita di carne bovina: proibita agli hindu, ma consumata da cristiani, musulmani, buddisti e tribali.
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Affossando un pezzo di economia, perché l’India esportava carne bovina per una nutrita somma della sua bilancia commerciale, ma soprattutto scatenando non soltanto arresti e sanzioni che in realtà non ci sono stati, quanto una ondata di violenza collettiva principalmente ai danni dei musulmani.
Illustrazione di Eric Pujalet Plaa

Uno dei più stimati analisti indiani, che preferisce per evidenti ragioni rimanere anonimo, commenta così, in modo forse colorito ma molto realistico, la situazione attuale indiana: «Tra cow vigilantes, Romeo squads e organizzazioni di estrema destra che organizzano seminari in cui si cercano di convincere le giovani coppie che essere hindu e vegetariani è il modo migliore per selezionare la razza e avere figli di pelle chiara, alti e intelligenti, la situazione sembra decisamente tragicomica. Più tragica che comica, a questo punto, visto che cominciamo a contare i morti ammazzati da zelanti imbecilli che passano il loro tempo alla ricerca di pericolosi criminali che spacciano bistecche invece che marijuana. Anzi, l’esempio in realtà non calza, visto che la marijuana e i suoi derivati in Uttar Pradesh e in altri posti sono legali. Puoi stonarti di cannoni, prendere bhang distribuito al tempio (un derivato della cannabis) e, con un certo grado di impunità massacrare di botte tua moglie e i tuoi figli, ma non cercare di torcere un pelo a una mucca. Se ti va bene ti arrestano, sennò finisci linciato da una folla che non ha neanche la scusante di essere sotto l’effetto di allucinogeni di qualche tipo. Le “Romeo squads” invece, altra poetica invenzione del prete induista che governa l’Uttar Pradesh, mirano a proteggere l’onore e la pace delle gentildonne per strada e non solo. Ufficialmente. Perché non ufficialmente sono invece un mezzo per massacrare di botte o peggio, tanto per cambiare, qualunque disgraziato giovincello di religione musulmana che corteggi, il più delle volte ricambiato, una ragazza induista. La cosiddetta “love jihad” secondo l’estrema destra, è una delle offensive messe in atto dai terroristi per conquistare l’India».

C’è chi evoca le nere ombre del nazismo, a cui almeno formalmente le divise e le gerarchie di alcune organizzazioni estremiste si ispirano. Senza arrivare a tanto, una cosa è certa: che all’interno del Sangh Parivar, il grande ombrello che riunisce organizzazioni, movimenti e partiti di destra e che dell’Hindutva (la supremazia culturale hindu) ha fatto una bandiera, la situazione è cambiata rispetto al tempo in cui, tra il 1998 e il 2004, la destra è stata al potere per l’ultima volta. Adesso, stanno vincendo le ideologie e le organizzazioni più estremiste che si sentono sempre più libere di instaurare regimi del terrore. E secondo una grande maggioranza Modi, più occupato ad abbracciare Trump che da ciò che succede all’interno del paese, lascerebbe fare voltando la testa dall’altra parte.

I cosiddetti “cow vigilantes” sono squadre che vigilano, appunto, sul benessere delle sacre mucche indiane. Esistono da un pezzo, ma dal 2015 gli episodi di violenza ai danni di musulmani accusati di macellare e vendere carne bovina sono diventati sempre più frequenti. Ci sono stati anche dei morti, e la Corte Suprema è intervenuta di recente per cercare di arginare il fenomeno e sancire il diritto al pagamento dei danni da parte dello Stato delle vittime di violenza. Per inciso, e perché l’India comunque manifesta sempre gli anticorpi ai regimi con tentazioni totalitarie, la Corte Suprema ha emanato negli ultimi due anni una serie di sentenze che, visti i tempi, hanno avuto e hanno del rivoluzionario: proponendosi come correttivo giudiziario a una serie di storture legislative e di prassi. Ma l’allarme, almeno tra la popolazione intellettuale e cittadina, resta alto. In primavera gli studenti dell’università di Delhi, che avevano organizzato una conferenza non gradita alla destra, sono stati vittima di un vero e proprio pestaggio di stampo squadrista senza che la polizia muovesse un dito per intervenire. Al contrario, alcune delle vittime del pestaggio sono state portate in guardina per “sedizione”. Sempre il solito giornalista, sostiene che se le cose continueranno così l’India rischia di trasformarsi di fatto nel suo arcinemico, il Pakistan, distruggendo così secoli di pluralismo democratico e di tolleranza.

Di recente, una giornalista molto nota per il suo impegno civile, Gauri Lankesh, è stata ammazzata da elementi dell’estrema destra. E l’India, nel 2017, è scesa al 136 posto nell’Indice mondiale sulla libertà di stampa. In realtà, fino allo scorso anno il premier Modi era riuscito a tenere più o meno a bada le frange più estremiste della destra adoperando un calcolato mix di bastone e carota.

La campagna elettorale, però, si avvicina: le elezioni politiche dovrebbero tenersi nel 2019, ma saranno probabilmente anticipate alla fine del prossimo anno. E Modi ha bisogno di tutto il sostegno e di tutti i voti possibili per continuare a governare e, soprattutto, per far passare le tanto sospirate riforme. E se è vero che per il momento non esistono seri oppositori politici all’orizzonte e che il partito del Congress sembra incapace di uscire dall’impasse in cui è precipitato, è vero anche che meno consensi significherebbero un governo di coalizione con cui dover fare i conti e più difficoltà nel governare. Perché è anche vero che traghettare l’India, l’India al suo completo, verso il futuro, non è per niente facile. La più grande democrazia del mondo soffre difatti di una serie di mali endemici dovuti in parte al modo in cui è stata concepita e fondata e in parte al modo in cui lo sviluppo economico è stato e viene gestito dalla classe politica di qualunque colore e credo. E si è ritrovata a un certo punto a guidare, assieme alla Cina, la riscossa delle economie asiatiche catapultandosi dentro capitalismo e modernità all’improvviso: senza andare per gradi e, soprattutto, senza aver colmato o almeno tentato di colmare le enormi lacune che esistono tra i diversi strati della popolazione in ambiti assolutamente fondamentali come l’istruzione, la sanità pubblica, le infrastrutture e i diritti del lavoratori.

L’India si è sviluppata in modo asimmetrico e scomposto, facendo prosperare una minima parte della nazione a danno del resto del paese: che viene ogni giorno di più ricacciato in un buco nero da cui diventa sempre più difficile, se non praticamente impossibile, uscire. Il cosiddetto sviluppo ha considerevolmente allargato e arricchito la middle-class, che costituisce la spina dorsale, la struttura portante dell’economia indiana e la base elettorale dell’attuale governo.

Ma ha anche contribuito ad allargare drammaticamente la sperequazione sociale e ad allargare la frattura tra cittadini. E mentre il resto del mondo si trastulla ancora con il concetto di “casta” e le organizzazioni della destra estremista fomentano antichi fantasmi, nell’India delle metropoli e dell’inurbamento si fa strada sempre più il concetto di “classe”, che con la casta non ha nulla a che vedere ma che è invece foriero di conflitti sociali destinati ad accentuarsi a causa della totale miopia della classe politica indiana. Non è un caso che le ideologie di estrema sinistra, oggetto nel resto del mondo di un malinconico tramonto culturale e politico siano in India vive e vegete. Analfabetismo, mancanza parziale o totale di acqua potabile, elettricità, scuole e ospedali pubblici; sfruttamento dei contadini, espropri di terreni agricoli vantaggio della Pubblica amministrazione con compensazioni inesistenti o ridicoli, corruzione dell’apparato burocratico e della polizia locale sono soltanto alcuni dei problemi che i governi di qualunque colore politico trascurano invariabilmente di affrontare in modo sistematico, razionale e, soprattutto, credibile. E che porteranno inevitabilmente la società indiana a implodere nel giro di qualche anno se non vengono adeguatamente fronteggiati.