L'intellettuale, per anni presidente dell’Università Al-Quds e rappresentante dell’Olp nella Città santa, spiega perché la svolta di Trump su Gerusalemme non ha provocato una reazione violenta nell'intera società palestinese

«Credevate forse che le persone in Palestina fossero come una macchina che reagisce a dei comandi? Che il discorso del Presidente americano Trump fosse come schiacciare il bottone dell’intifada, provocandola in automatico? Per una rivolta serve un obiettivo tangibile, una strategia. Serve l’articolazione di una visione e soprattutto la fiducia in quello che si sta facendo». L’intellettuale palestinese Sari Nusseibeh, che è stato per anni presidente dell’Università Al-Quds e rappresentante dell’Olp nella Città santa, non è stupito che il discorso in cui Trump su Gerusalemme capitale non abbia provocato una reazione violenta di larga scala da parte della società palestinese.

Quali sono gli attori della società civile palestinese che hanno frenato la rivolta all’indomani del discorso di Trump?
«Prima di tutto vorrei dire che un’analisi più attenta del discorso di Trump ne rivela una natura non del tutto sfavorevole ai palestinesi. Certo, la sensazione immediata è stata di fastidio e di frustrazione, ma con le sue parole Donald Trump ha creato una cortina di fumo che gli ha permesso di rinviare lo spostamento dell’ambasciata da Tel-Aviv a Gerusalemme. Di fatto, firmando l’atto di rinuncia che dal 1995 rinvia lo spostamento della missione diplomatica nella città santa, Trump non ha mantenuto la promessa fatta ai suoi elettori con la scusa formale dei tempi tecnici. E non specificando di quale Gerusalemme si parlasse, è come se avesse voluto spingere israeliani e palestinesi a tornare al tavolo dei negoziati. Esistono categorie di palestinesi che non hanno particolare interesse ad alterare lo status quo. Penso alla fiorente comunità di commercianti e businessmen della Cisgiordania, che viaggia e interagisce col mondo. Penso a burocrati e politici dell’Anp, che vivono grazie ai finanziamenti stranieri destinati ai nostri servizi, talvolta intascandosi i fondi. Ma penso anche agli oltre 120.000 lavoratori palestinesi che ogni giorno si guadagnano il pane sgobbando in Israele o negli insediamenti della Cisgiordania. In Palestina c’è una struttura sociale profonda basata su affinità locali, familiari e tribali che ha ancora molto più peso rispetto alle “classi”. E non è detto che i più benestanti siano anche i più moderati. A Hebron, una delle città più importanti della Cisgiordania, la borghesia locale è vicina all’ala più conservatrice di Hamas, e il sindaco è un islamista con un passato da combattente. Per una nuova rivolta serve un’unità di intenti che metta insieme tutte queste realtà come avvenuto con la prima intifada. Altrimenti ci saranno solo “tremori di violenza”, come quelli che abbiamo visto dopo il discorso di Trump, ci saranno sempre finché non si trova una soluzione. In tempi in cui domina la sfiducia, fra mancanza di pressioni internazionali su Israele, insediamenti e radicalizzazione del governo israeliano, non credo proprio si possa andare oltre. Dopo quasi trent’anni di autogoverno nei territori, la società palestinese è peraltro disincantata: non è stato certo il migliore dei mondi possibili. C’è corruzione a cattiva amministrazione, mancano investimenti in istruzione, infrastrutture, produttività. Anche questo è un elemento che placa la voglia di rivolta, per quanto si possa dare la colpa agli israeliani».

Per molti analisti il discorso di Trump avrebbe sancito il crollo definitivo della soluzione a due stati
«Da giovane ho vissuto in una Gerusalemme divisa dal muro che ha separato la parte israeliana da quella giordana dal 1948 al 1967. Ho poi scoperto di aver vissuto a poche centinaia di metri da Amos Oz, lo scrittore israeliano, senza poterlo incontrare fino alla riunificazione del territorio dopo la Guerra dei Sei Giorni. Mio padre era proprio di Gerusalemme, mentre mia madre mi raccontava sempre del villaggio in cui era cresciuta dall’altra parte, in quello che ormai era divenuto territorio israeliano. Ecco perché ho sempre vissuto la divisione di quelle terre come un qualcosa d’innaturale. Per me il paese è uno solo, ma non ho mai pensato che mi appartenga, casomai ho pensato di appartenere io al paese. Quando Israele ha conquistato la West Bank e Gaza nel 1967, invece di versare lacrime sulla cosiddetta “naqsa” (la disfatta, in arabo, ndr.), ho festeggiato la riunificazione, gioito nel vedere i muri cadere. Per me si trattava solo di creare un sistema politico in cui tutti avessero pari diritti, arabi ed israeliani come esseri umani di uguale valore. Purtroppo israeliani e palestinesi volevano restare divisi. Allora ho provato a promuovere la strada dei due stati, anche se in fondo al cuore rimango un’unionista. La mia famiglia è stata custode del Santo Sepolcro per più di mille anni: è un ruolo di cui siamo onorati e che da musulmani svolgiamo con dedizione, dimostrando che la convivenza è possibile, anche a Gerusalemme».

La società palestinese è più che mai spezzettata, dalla Gaza di Hamas alla Cisgiordania, dagli arabo-israeliani alla diaspora. È un puzzle che potrà mai ricomporsi?
«Quello della creazione di tante società palestinesi è uno dei paradossi del ‘67, quando ci trovammo divisi fra Egitto, Giordania e Israele, con la storia pre-1948 come unico ombrello comune. È una frammentazione geografica, politica, che rischia di diventare anche culturale, ma ho fiducia che agisca solo in superficie. Nel profondo siamo tutti legati all’identità nazionale palestinese, oltre che al sistema in cui viviamo. E come noi, anche Israele si confronta oggi con una sfida da cui dipende la propria esistenza. Non può controllare milioni di palestinesi senza compromettere la propria natura ebraica e democratica: dall’inizio di questa guerra ha vinto tutte le battaglie senza raggiungere il proprio scopo, quello di esistere in sicurezza. Trump ha invitato le parti a tornare al tavolo dei negoziati, ma se i palestinesi sbattono la porta è anche la fine di Israele».