"L’opportunismo dell’Europa ha forti responsabilità sulla destabilizzazione dell’Africa di oggi. Ed è questo che ha portato all’esplosione dei migranti". Parla il primo premio Nobel per la letteratura africano
Sembra un ragazzo, Wole Soyinka, anche se è nato nel 1934. Lo chiamano «zio Soyinka» gli scrittori africani delle generazioni successive, oppure «prof», con un’affettuosa abbreviazione, perché sono tutti cresciuti sulle sue parole. Del resto, sono parole sceltissime, basta ascoltare il suo inglese raffinato, evocativo. E poi è stato il primo premio Nobel della letteratura africano, nel 1986, e ha rappresentato una rivincita per tutti.
Sembra un ragazzo perché ha un modo di fare da persona giovane, e uno sguardo acceso, pieno di humour. Eppure ha avuto un vita parecchio intensa. Nigeriano yoruba, scrittore, poeta, drammaturgo, attivista politico, da sempre impegnato contro la dittatura, Soyinka ha superato la prigionia, una condanna a morte e l’esilio. E adesso, che in qualche modo incarna tutte le battaglie per la giustizia, è ancora instancabile. I suoi libri, in questo periodo, suonano più attuali che mai. La nave di Teseo ha pubblicato una nuova edizione aggiornata di “Sul far del giorno” (traduzione e cura di Alessandra Di Maio); Jaca Book ha ristampato “L’uomo è morto” (traduzione di Carla Muschio) e 66th una bellissima antologia di poeti italiani e nigeriani, chiamati da Soyinka a costruire un ponte fra l’Africa e l’Europa, parlando dei migranti del Mediterraneo, “Migrazioni” (a cura di Alessandra Di Maio).
Di questi tempi, la poesia intitolata “Migrante” sarebbe da leggere e rileggere. Ecco alcuni versi: «Il domani viene e va, giorni da relitti di spiaggia / Forse mi indosserai, alghe cucite / su falsi di stilisti, con marche invisibili: / fabbriche in nero. O souvenir sgargianti, distanti / ma che ci legano, manufatti migranti, rolex / contraffatti, l’uno contro l’altro, su marciapiedi / senza volto. I tappeti invogliano ma / nessuna scritta dice: BENVENUTI».
Lei cita spesso Orunmila, il dio della divinazione degli yoruba, famoso per il suo spirito vagabondo. Possiamo considerarlo il dio dei migranti? Se chiedessimo a lui di dirci cosa succederà rispetto alle migrazioni, cosa risponderebbe? «Temo di non avere le doti di Orunmila. Ma credo che userebbe lo stesso linguaggio di Cristo: «Ero forestiero e mi avete ospitato, ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli, l’avete fatto a me».
E lei? Cosa pensa che succederà? «Finché non ci si decide a occuparsi delle cause che provocano questa esplosione di migranti, la situazione non potrà svilupparsi in maniera diversa. Bisogna affrontare i conflitti che stanno dietro alla crisi, altrimenti non potrà essere risolta in nessun modo».
Parliamo di questi conflitti. Lei dice che fare arte è la forma di resistenza più completa. Che tipo di arte ci vuole per fare resistenza, nell’epoca di Boko Haram e dell’Isis? «Pensiamo all’umanità come a una comunità di esseri viventi costantemente in movimento. Essere umani significa essere in moto, in una situazione dinamica. Organizzazioni come Boko Haram o Daesh cercano invece la stasi, la stagnazione. Rifiutano lo sviluppo, hanno una concezione primitiva della società. Questa si chiama inimicizia verso l’umanità. E tutte le arti dovrebbero scendere in prima linea e puntare l’attenzione su quello che sta succedendo. Un modo per combatterle, per esempio, è ridicolizzarle. Sono organizzazioni così autoriferite, egotistiche, tronfie e presuntuose. La loro pomposità è oscena e dovrebbe essere oggetto della più aspra ridicolizzazione».
Ci spiega su quale terreno è stato portato il modello di Al Qaeda e del terrorismo mediorientale in Africa? «Bisogna risalire a Gheddafi: il suo programma, già tanti anni fa, era quello di islamizzare l’Africa. Pensiamo a un ideologo come Hassan al-Turabi, che era un accolito di Gheddafi. Era un sudanese, un intellettuale e un politico estremista. Anche lui aveva l’ambizione di islamizzare l’Africa. Insomma, dietro a tutto ciò che vediamo oggi c’è un programma politico preciso, con un supporto teorico. Non ci sono solo interessi economici in ballo, non solo quelli, ecco. È ovvio che a nessuno dispiace mettere le mani sul petrolio della Nigeria, per esempio. Ma sono due cose diverse. Non bisogna sottovalutare l’origine religiosa. Dietro la mentalità jihadista c’è un vero e proprio programma intellettuale e politico, molto strutturato e complesso».
Lei cita spesso l’articolo 14 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo: “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni”. Si occupa di Cities of Asylum, il network internazionale che offre rifugio a scrittori perseguitati. Cosa pensa dei muri anti-migranti che stanno sorgendo ovunque? «Bisogna accettare il fatto che le persone stanziali, che occupano da tanto tempo un territorio, tendono a proteggere quel territorio per istinto. È proprio un istinto naturale. Ogni essere umano è fatto così. Per prima cosa pensa: io, la mia famiglia, il mio paesino. Ragiona nei termini dei suoi confini, sostanzialmente. Il passo successivo è un’analisi oggettiva di una situazione che costringe a confrontarsi con degli esseri umani in reale stato di necessità. Bisogna usare l’empatia, mettersi nei panni degli altri. Ma, com’era prevedibile, questo istinto naturale scavalca tutte le considerazioni razionali. Quindi tocca ai politici ricordare che conta anche l’essere umano. L’opportunismo dell’Europa ha forti responsabilità sulla destabilizzazione dell’Africa di oggi, che ha portato all’esplosione di migranti. Chickens come home to roost».
I nodi vengono al pettine. Sia in Europa che in Africa. Lei ha condiviso con Mandela il grande sogno di un rinascimento africano, che invece sembra una promessa mancata: stanno fuggendo tutti. In futuro, secondo lei, per questi migranti sarà possibile un ritorno? «Tutto quello che si dice sul futuro dell’Africa in Occidente viene detto da chi ha avuto e continua ad avere una grandissima responsabilità su quello che sta succedendo lì. In realtà, è vero che l’Africa è una promessa mancata. Ma io posso rispondere solo personalmente, per quel che riguarda il sogno mio e della mia generazione. Noi avevamo un sogno enorme, che è fallito. Ancora oggi, però, ci sono tanti giovani che vanno fuori per studiare, per diventare professionisti, e che dopo scelgono di tornare a casa per cercare di dare una possibilità al rinascimento africano. Sono sicuro che, fra una quindicina d’anni, in Africa sarà raggiunto un livello di sviluppo che molti ritengono impossibile oggi».