La notizia raccontata al porto di Lampedusa da un pescatore. La ricerca dei dispersi con le foto e i messaggi dei parenti. E la domanda dei medici sopravvissuti: «Perché ci avete lasciati morire?»

L'inchiesta sul naufragio dei bambini è cominciata dal porto di Lampedusa. Sono le 17.30 di quel venerdì 11 ottobre 2013. Un anziano pescatore dice a un amico che al telegiornale hanno appena dato la notizia di un altro naufragio. Otto giorni prima, a ottocento metri dalla scogliera di Cala Madonna, erano annegati 366 profughi, quasi tutti eritrei. «Questa volta», racconta il pescatore, «è successo a sessanta miglia a Sud di Lampedusa, ma dicono che i soccorso sono usciti da Malta perché loro sono più vicini». Come è possibile? Malta è a Nord Est, il barcone è affondato a Sud. E perché da Lampedusa non si è ancora mosso nessuno?

Le motovedette della Guardia costiera stanno portando in porto gli ultimi cadaveri che stanno ancora pescando dal fondale. Ma i due potenti pattugliatori della Guardia di finanza sono ancora ormeggiati. Perché, se Lampedusa è sicuramente più vicina al punto del naufragio, non sono ancora partiti? Infatti salpano nel giro di pochi minuti, con una lunga scia di denso fumo nero. Segno che stanno spingendo al massimo. Gli uomini della Guardia costiera lavano con potenti getti d'acqua il sangue che imbratta il ponte delle loro motovedette e si uniscono anche loro all'operazione.

IL VIDEO ESCLUSIVO: LE TELEFONATE DEL NAUFRAGIO
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Le prime notizie raccontano di un conflitto a fuoco a bordo del peschereccio carico di bambini. Le pallottole hanno bucato lo scafo e si sono rovesciati. Strano, in quegli anni non si era mai sentito di scafisti armati. E infatti si saprà poi che non c'è stata nessuna sparatoria a bordo: a sparare raffiche di mitra sono stati miliziani libici su una motovedetta, la notte prima, subito dopo la partenza. La questura di Agrigento ha difficoltà a parlare con i parenti delle vittime che cercano notizie. Chiedono aiuto ai giornalisti. E "L'Espresso" mette a disposizione il proprio sito come luogo di incontro. Elenchi e foto dei dispersi vengono pubblicati in arabo, inglese e in italiano. Tantissimi sono bambini.
Esclusivo
«Stiamo morendo, per favore»: le telefonate del naufragio dei bambini
9/5/2017

I sopravvissuti portati a Malta e a Porto Empedocle cominciano a raccontare di ritardi nei soccorsi. Sanno che un medico ha tenuto le comunicazioni con l'Italia e con Malta. I medici a bordo erano moltissimi. Scappavano tutti dalla Siria in fiamme. Il primo problema sono i bambini senza genitori. Non tutti sono orfani. I soccorritori in mare hanno proverbialmente raccolto prima i piccoli, poi le donne e per ultimi gli uomini. Così le famiglie si sono spezzate.

"Repubblica" riesce a far sapere ad alcune coppie a Malta che i loro bambini sono sani e salvi in Italia. E la burocrazia si mostra subito odiosa. Nonostante Italia e Malta siano due Stati della stessa Unione Europea, passeranno settimane prima che si riescano a ricongiungerli tutti. Una mattina una ragazza scrive una mail dagli Emirati Arabi. Racconta che suo cugino ha perso in mare la moglie e tre figli. È a Malta. Lui le ha raccontato che i soccorsi sono arrivati con quasi sei ore di ritardo dopo un evidente scaricabarile tra autorità italiane e maltesi. A volte la percezione di chi vive una tragedia non è sempre attendibile. Bisogna andare a Malta. L'incontro avviene al tavolino di un bar. Mazen Dahhan, 36 anni, neurochirurgo, la giovane moglie e i tre figli di uno, 4 e 9 anni rimasti in fondo al mare, guarda con gli occhi pieni di lacrime e chiede: «Perché voi italiani ci avete lasciato annegare?».

La loro percezione è proprio quella. La stessa che ha vissuto Ayman Mustafa, 38 anni, anche lui chirurgo, la moglie e una bambina di tre anni rimaste a 61 miglia a Sud di Lampedusa. Raccontano che chi ha tenuto le telefonate è il loro amico e collega Mohanad Jammo, 40 anni allora, anche lui medico. E la testimonianza del dottor Jammo è precisa e dettagliata.

Quando esce il primo articolo su "L'Espresso", il direttore Bruno Manfellotto decide di mettere la storia in copertina: «Lasciati morire», è il titolo, durissimo.

Letta l'inchiesta, l'ammiraglio Felicio Angrisano, comandante generale della Guardia costiera e delle capitanerie di porto, scrive una lettera seccata. E riporta fedelmente gli orari delle chiamate e degli interventi. La prima traccia dello scaricabarile tra Italia e Malta: è quello il sentiero che ci ha permesso di ricostruire quanto è avvenuto quel maledetto pomeriggio, dalla posizione effettiva della nave Libra fino alle telefonate di soccorso che da lunedì 8 maggio, nel videoracconto "Il naufragio dei bambini", stanno facendo il giro del mondo.