Un anno dopo l’accordo con la Ue, milioni di profughi sono bloccati nel Paese di Erdogan. Dove sopravvivono o sono ridotti in schiavitù. E il regime di Ankara non vuole che nel mondo ne parli

15/10/2015 Turchia, campo profughi di Nizip, a 45 km dal confine con la Siria
Mentre il 21 dicembre 2016 Bana Alabed, sette anni, di Aleppo est, varcava la soglia della residenza del presidente turco Recep Tayyip Erdogan ad Ankara, migliaia di piccoli profughi, la maggior parte siriani, sparsi in tutta la Turchia stavano cercando assieme ai propri genitori un tetto per ripararsi dalla neve e dal gelo almeno durante la notte. Altri invece continuavano a lavorare nelle tante fabbriche turche o a chiedere l’elemosina per le strade delle città.

La piccola Bana, diventata nota in tutto il mondo per i commoventi tweet inviati dalla zona orientale della città siriana assediata dai soldati di Bashar al Assad e bombardata dall’aviazione russa, è l’unica bambina fuggita dal conflitto che insanguina da sette anni la Siria ad aver finora ricevuto un trattamento da star in Turchia. A tutti gli altri sarebbe bastata e basterebbe invece un’accoglienza in linea con gli standard previsti dalla Convenzione di Ginevra del 1951, relativa allo status dei rifugiati, sottoscritta da Ankara ma applicata solo a partire dal 2014 e di fatto parzialmente. «In teoria, la Turchia professa una politica di “frontiera aperta” per accordare ai profughi il diritto di chiedere asilo. Ma in pratica a molti già da anni viene negato l’accesso, essendo privi di passaporto», spiega Barbara Spinelli, avvocata dell’Eldh, l’organizzazione non governativa degli avvocati europei per la democrazia e la difesa dei diritti umani.

Spinelli nei suoi viaggi in Turchia come osservatrice ha raccolto una serie di testimonianze che le consentono di affermare che «i luoghi di attraversamento del confine sono stati perlopiù chiusi per gran parte degli ultimi due anni. Di conseguenza molti siriani in fuga dalla guerra entrano irregolarmente, attraversando i campi minati tra Turchia e Siria. E, per questo, tanti sono ricorsi all’assistenza dei trafficanti», ovviamente dietro pagamento di ingenti somme.

Diritti
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Un’attività di documentazione, quella di Spinelli, che tuttavia non potrà andare avanti: pochi mesi fa le è stato negato l’ingresso in Turchia con un provvedimento che le vieta per sempre di rimettere piede sul territorio della Mezzaluna. Al governo di Ankara chi indaga sulle condizioni dei profughi siriani non piace, ed è per le sue inchieste proprio su questo aspetto della guerra che è stato arrestato, detenuto e poi espulso il giornalista e blogger Gabriele Del Grande, tornato in Italia il 24 aprile scorso.

E se la piccola Bana è stata esposta da Erdogan come prova della bontà del Sultano, la maggior parte dei ragazzini siriani in Turchia vive oggi in tende, baracche e tuguri malsani, come lo sono spesso i luoghi dove lavorano. Lo scorso anno i noti marchi europei H&M e Next avevano ammesso che nelle proprie fabbriche aperte in Turchia lavorano minori siriani. «I minori rifugiati che lavorano per salari vergognosi, finiscono talvolta per subire altri abusi, tra cui la violenza sessuale», dice Phil Bloomer, direttore esecutivo di Business & Human Rights Resource Centre. Solo tre sui ventotto marchi contattati dallo staff di Bloomer sono dotati di un’agenda per prevenire discriminazioni e maltrattamenti. Più di un terzo si è rifiutato di rispondere alle domande.
Il presidente turco Tayyip Erdogan

In Turchia ci sono tre milioni e mezzo di rifugiati. Di questi, due milioni e ottocentomila sono siriani, un terzo dei quali minori. Finora solo 4 mila sull’ammontare totale hanno ottenuto il permesso di lavoro dal governo turco. L’industria tessile turca è la sesta più grande del mondo ma il 60 per cento della propria forza lavoro è irregolare.

«L’arrivo trionfale di Bana è stata l’ennesima messinscena di un uomo spietato interessato solo ad approfittare della nostra disgrazia per ottenere soldi dall’Europa e avere un posto al tavolo dei negoziati sulla pace rendendo più influente il ruolo della Turchia nel mondo islamico sunnita», dice una ex studentessa universitaria di medicina fuggita dal sud della Siria 4 anni fa assieme ai genitori e ai due fratellini di 10 e 12 anni. Questa ventiduenne, che chiede di non svelare la sua identità per timore di ritorsioni da parte delle autorità turche, vive con gli altri quattro familiari in uno scalcinato monolocale affittato sulla sponda europea della sconfinata periferia di Istanbul. «Io lavoro in nero come donna delle pulizie in un ristorante e mio padre, che in Siria era proprietario di un grande negozio di tessuti, va in giro tutto il giorno a raccogliere la plastica da riciclare per riuscire ad aggiungere qualche spicciolo alla mia misera paga. Mia mamma deve badare ai miei fratellini. Non vogliamo che finiscano anche loro a lavorare nelle officine o nelle filiali delle multinazionali come schiavi».

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Fino a tre anni fa la Turchia non riconosceva il diritto alla “protezione temporanea” di coloro che fuggono dai conflitti, a meno che non fossero stati cittadini europei. Di conseguenza i profughi non europei erano considerati solo “misafir” ovvero “ospiti”, e per questo potevano entrare attraverso un visto turistico o illegalmente. «I visti turistici scadono, ma non avendo il passaporto io e i miei familiari non avremmo comunque potuto richiederli», conclude l’ex studentessa universitaria mentre scendiamo alla stazione della metro di piazza Taksim, vicino al suo posto di lavoro irregolare.

Mentre camminiamo indica un gruppo di persone ferme sotto il cavalcavia di Tarlabaci: sono anche loro siriani, arrivati da poco nella metropoli sul Bosforo. Sotto il ponte l’odore di smog impedisce quasi di respirare e il rumore del traffico è assordante. Due neonati infagottati di stracci piangono senza sosta nelle braccia delle mamme sedute a terra, accanto a loro alcuni anziani tentano di far giocare tre bambini che avranno circa cinque anni di età. Ci avviciniamo: «Qui siamo arrivati ieri dopo un viaggio di tre giorni in pullman dal sud est della Turchia.

Lì l’esercito turco bombarda i curdi, non potevamo rimanere: non siamo scappati da Assad e dall’Isis per finire intrappolati in un altro conflitto». A parlare è il più anziano del gruppo, Yasar, un signore di 60 anni che ne dimostra almeno dieci in più. «Non vogliamo andare nei campi profughi perché ci hanno detto che è come stare in carcere e i prezzi degli alimentari sono molto alti tanto che la tessera mensile non basta. Ora il problema è che Istanbul è enorme, non sappiamo come muoverci, come comunicare, siamo stanchi e senza punti di riferimento. È la seconda notte che dormiamo qua sotto. Non abbiamo i soldi per pagarci un affitto», piange quest’uomo che ha paura persino di dirci in quale città abitasse quando era in Siria.

Riprendiamo a camminare e dopo pochi metri alcune donne velate ci vengono incontro: in una mano tengono dei pacchetti di fazzoletti e penne a sfera, nell’altra i figli piccoli. Ci chiedono il corrispettivo di un euro per due pacchetti e due biro. Campano così. Anche loro sono siriane.

Dei tre milioni e mezzo di migranti, solo 300 mila vivono nei campi profughi finanziati dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e gestiti dall’Afad, l’agenzia governativa turca analoga alla nostra protezione civile.

«Erdogan ha più volte dichiarato che la Turchia provvede ai bisogni di tutti i profughi, ma non è la verità. Solo coloro che vivono nei campi hanno diritto alla tessera e a un posto dentro le tende dell’Onu», ci spiega un attivista anglo siriano che preferisce non venga scritto il suo nome perché già arrestato dalla polizia turca.

Ai giornalisti è proibito visitare i campi se non dopo una lunga trafila burocratica per ottenere l’autorizzazione che spesso viene negata. I campi sono delimitati da filo spinato. I profughi possono uscire solo durante il giorno ma si trovano in mezzo al nulla dato che i campi sono lontani dai centri abitati. Se è vero che numerosi siriani della prima ondata, molti laureati e in grado di parlare inglese, sono riusciti a trovare un lavoro in nero come commessi nei negozi di abbigliamento che punteggiano Istiklal ciaddesi, è altrettanto vero che tanti sono già stati licenziati.
Bana Alabed in una foto tratta dal suo profilo Twitter, 25 gennaio 2017. La ragazzina siriana di sette anni nota in tutto il mondo per i suoi tweet da Aleppo ha scritto un lettera aperta al presidente americano Donald Trump affinché intervenga a favore dei bambini siriani. PROFILO TWITTER DI BANA ALABED +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO? ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L?AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

La via più nota e affollata di Istanbul oggi è frequentata solo da pochi turisti arabi che si affidano ad Allah per sfuggire a nuovi attacchi terroristici, responsabili del drammatico crollo della principale voce economica turca in questi ultimi due anni. «Io sono di Damasco dove lavoravo in una banca dopo essermi laureato in economia all’università europea», dice Ahmed, 32 anni in un inglese fluente. Figlio di un facoltoso imprenditore, è scappato dalla Siria non appena scoppiato il conflitto: «Non volevo andare a combattere, non voglio uccidere nessuno e ritengo Assad e i jihadisti entrambi criminali. Sono arrivato dal Libano e, avendo il passaporto, ho potuto avere un visto turistico ma non l’asilo perché ai non europei allora non veniva riconosciuto. Fino all’anno scorso lavoravo in un negozio di scarpe ma ora hanno ridotto il personale per la crisi economica e sto cercando un altro lavoro, ma è difficile trovarlo. Il tasso di disoccupazione in Turchia è in costante aumento purtroppo. Per ora ce la faccio ancora a reggere con i soldi che avevo da parte, ma sono molto preoccupato».

L’unica agevolazione, oltre alla tessera alimentare che lo stato garantisce ai rifugiati, è l’accesso gratuito alle cure mediche, ma chi non si è potuto registrare come profugo, perché i tempi delle pratiche sono lunghi, si ritrova anche senza questa copertura. Secondo l’Unione Europea la Turchia è un paese sicuro e accogliente per chi fugge dalle guerre. E da un anno, come noto, è in vigore l’accordo sui profughi tra Turchia e Ue, affinché restino nel paese di Erdogan e non entrino in Europa.