Viaggio nella Vilnius segreta, tra le memorie di una città multiculturale e il presente
Il mio luogo del cuore non esiste più se non in una vecchia foto, scattata da Moryc Grossman fotografo a Wilno, oggi Vilnius, capitale della Lituania e una città che di nomi ne ha una dozzina: tutti quanti legati a una delle tante lingue che vi si parlavano. Vilnius era abitata da polacchi, ebrei, russi, lituani, e poi bielorussi e armeni, tatari e ucraini e via elencando. Diventò lituana nel 1939. In quella foto si vede una modesta casetta a un piano.
Apparteneva al signor Rosental che nel 1897 la mise per poche ore a disposizione di tredici persone. Erano uomini e donne, operai e intellettuali che qui fondarono il primo partito socialista dell’Impero zarista, il Bund, la Lega generale dei lavoratori ebrei. Il Bund ebbe una storia breve e gloriosa e non è il caso di raccontarla qui, se non per dire che i suoi militanti parlavano lo yiddish, consideravano quell’idioma, all’epoca disprezzato da ebrei borghesi e non ebrei antisemiti, la lingua più bella del mondo. I bundisti erano contrari all’idea di spostare gli ebrei in Palestina e far rivivere sulla riva del Mediterraneo l’antico ebraico. Loro volevano invece combattere, in yiddish, per la dignità e la libertà là dove vivevano i proletari ebrei, i più umili e derelitti tra gli umili e derelitti del nostro Continente. Finirono nelle camere a gas.
Eccomi quindi in Kraziu gatvé 4, via Krazai 4 (dal nome di una città in Samogitia, regione della pianura lituana) alla ricerca della memoria degli sconfitti, una memoria e tanti sconfitti cui sono devoto non perché finirono ammazzati, ma perché erano capaci di sognare un mondo migliore; e di agire di conseguenza, da episodi di lotta armata e fino a creare, nella Polonia di prima della seconda guerra mondiale, una rete di sindacati, associazioni sportive, scuole, case di cura, giornali, case editrici. Al posto della casetta del signor Rosental c’è un edificio a tre piani, con due ippocastani davanti. L’intonaco scrostato è color rosa in alto, ocra in basso. A trenta metri di là: le mura giallo nere della prigione Lukishki, con tutta la loro grezza ottocentesca crudeltà. Nel parcheggio tra le mura e l’edificio: macchine di grossa cilindrata e bici di lusso. Appartengono agli avvocati che qui hanno i loro uffici, come recitano le targhette piantate in un giardinetto dove l’erba stenta a crescere. Quando li vedo uscire e chiedo se sanno che cosa c’era qui prima, scuotono la testa e accelerano il passo. Finisce che sotto le finestre aperte metto in funzione il mio smartphone; a volume altissimo faccio suonare l’inno del Bund, cantato da un coro di militanti australiani, nostalgici come me. Gli avvocati si affacciano e non capiscono quelle parole in yiddish che dicono: “Giuriamo l’eterna fedeltà al Bund”. Eterna, perché “testimoni sono le luminose stelle”.
Gerusalemme del Nord, così Napoleone Bonaparte qui di passaggio con la Grande Armée (i diari di Stendhal andarono però perduti) chiamò Vilnius per le sue cento sinagoghe. Città di studi talmudici, ma anche delle avanguardie poetiche e artistiche e della laicità yiddish, qui negli anni Venti nacque l’Istituto delle scienze yiddish (Yivo), specie di Accademia. Del board faceva parte Sigmund Freud. Così vado alla ricerca dell’altro mio luogo del cuore, in questa città dove fino alla Shoah un terzo della popolazione parlava, sognava, amava, scriveva in yiddish. Io di questa lingua assassinata e mai amata a sufficienza sono uno degli ultimi custodi. Eccomi quindi alla ricerca di Vivulskio 18, prima della guerra quando la città si chiamava in polacco Wilno, Wiwulskiego 18. Qui c’era la sede dello Yivo. L’edificio fu raso al suolo. E neanche l’indirizzo esiste più. Dopo il civico 16 appare il 20, un palazzo moderno in cemento armato e vetro.
Potrei dire, forse è meglio così perché si evita la presenza degli zombie e dei revenants e restano i sogni, che sono sempre più belli della realtà. E poi Vilnius è una città meravigliosa e dolce; con le strade che salgono lungo le verdi colline, con il centro storico dove stupende chiese rinascimentali convivono con raffinati palazzi neo-classici, costruiti da architetti italiani per aristocratici polacchi. È dolce il suono della lingua lituana ed è bella Vilnius con i suoi giardini e il fiume Neris che non la taglia in due, come talvolta accade ai fiumi in altre città, ma - come l’inconscio dove finiscono e si rispecchiano i più segreti detriti - ne esalta le diverse anime.
Una di queste anime, forse la più nobile, si chiama Irena Veisaite. Irena ha 89 anni, a Vilnius arrivò dopo la guerra, fu salvata dal ghetto di Kaunas (altra grande città) da una signora che lei chiama “mia seconda madre”. La seconda madre, finita la guerra fu arrestata e spedita dai sovietici in un Gulag. Irena invece divenne professore all’Università e autorità morale ammirata e temuta per la sua radicale onestà. Di quel che mi ha raccontato parlerò dopo, per ora voglio dare un altro indirizzo, il terzo di questa storia: Basanevicius gatvé 16, prima della guerra Wielka Pohulanka 16. Sono quindi a casa di Irena in un grande palazzo borghese, fin de siècle, facciate con false colonne in basso rilievo e in alto maschere che rappresentano facce umane. Qui abitava da ragazzino Romain Gary, scrittore francese dalla prosa sublime. Nella sua autobiografia “La promessa dell’alba”, trasforma il cortile di questo edificio in uno spazio mitologico; tra il suono delle lingue parlate: il polacco e il russo, lo yiddish e il lituano e il greco; e i profumi di cibi di diverse cucine; e con il venditore di lukum, il dolce turco. Lo amo perché Gary era uno scrittore che come nessun altro trasformava menzogna in verità letteraria e verità di vita in menzogna poetica. Si chiamava Roman Kacew ma si inventò lo pseudonimo Romain Gary, e non pago ne assunse un altro, segreto, Émile Ajar con cui vinse pure il premio Goncourt. Nello stesso edificio abitava Max Weinreich, codificatore della lingua yiddish, traduttore di Freud e dopo la guerra importante intellettuale americano. Con Irena, nel suo piccolo ed elegante appartamento parliamo in un misto di inglese, yiddish e russo, a seconda di quello che vogliamo dire: a Vilnius è il sentimento a cercare la lingua e non la lingua a cercare la parola. Quando mi congedo, sulla porta mi dice: «Lo sa che uno dei figli di Weinreich è diventato pastore protestante?». Fisico, specializzato nei suoni del violino, «ha pensato che come prete avrebbe avuto più possibilità di diffondere i dieci comandamenti».
Ma non tutto è poesia, nostalgia, tenera melanconia. Bisogna sapere che in Lituania, la parola “partigiano” non connota chi resisteva ai nazisti, ma i 30 mila uomini e donne che combatterono i russi dal 1944 e fino al 1954. L’occupazione qui significa il potere sovietico, mentre il genocidio, come si evince dal nome stesso del Museo del genocidio, appunto è quello perpetrato dai comunisti ai danni del popolo lituano. Il museo è nell’edificio dell’ex Kgb, in Viale Gediminas, una strada ottocentesca che cambiò diverse volte nome: da San Giorgio a Mickiewicz; da Hitler a Stalin; da Lenin a Gediminas, medioevale principe lituano. Non ne racconterò l’interno e la struttura; non è la mia Vilnius: vi si vede solo la banalità dell’orrore, la burocrazia della morte. Ne parlo perché un giornalista giovane e coraggioso, Donatas Puslys, mi ha narrato che tra i martiri della feroce repressione sovietica ci furono anche collaboratori dei nazisti, gente coinvolta nello sterminio degli ebrei. Ed è forse il momento per dire che con Irena Veisaite ho parlato proprio di questo. Lei mi ha detto che finalmente il tema non è più tabù. E mi ha fatto vedere un libro di una scrittrice brava che questo racconta: dei boia lituani e vittime ebree, vicini di casa e che si assomigliavano anche fisicamente. Pubblicato l’anno scorso è oggetto di una accesa discussione che riapre antiche ferite e rompe consolidati silenzi. Vilnius è anche questo: un luogo dove la storia non è in bianco nero; il bene e il male si intrecciano in un corpo a corpo affascinante perché spaventoso. Pure per questo la amo: perché qui le scelte sono difficili e nette.
Città dei libri e delle avanguardie si è detto. Qui nasceva, sempre in via Basanavicius 16, il gruppo Yung-Vilne (giovane Vilnius), poeti e pittori modernisti. Una volta costituito il ghetto, nel 1941, molti di loro finirono a far parte della “Papier Brigade”, la brigata di carta. A Vilnius esistevano le due biblioteche ebraiche principali del mondo: quella dello Yivo e la biblioteca Strashun (dal nome di un collezionista). I tedeschi volevano portare i volumi più preziosi in Germania. I grandi poeti furono incaricati di selezionarli. Nel frattempo scrivevano, organizzavano tornei di poesie e spettacoli musicali. I versi di Abraham Sutzkever, Shmerke Kaczerginski, Hirsh Glick, scritti e cantati qui, esempio di una resistenza spirituale laica, sono la mia colonna sonora. Potrei dire che la mia automobile si rifiuta di camminare senza che io abbia inserito un cd con quei versi messi in musica. Non è solo stupenda lirica. Sutzkever, uno dei poeti più sofisticati del Novecento, scomparso all’età di 97 anni in Israele, in una poesia, intitolata “Tsirk”, il circo, racconta come una Ss gli ordinò di seguirlo. Accanto alla sinagoga gli fu detto di spogliarsi nudo. In compagnia di un rabbino e di un ragazzo altrettanto nudi, dovettero danzare buttando nel fuoco i libri della Torah. I tedeschi ridevano divertiti.
Nei cortili, lunghi e stretti (ne parlava un altro poeta che adoro, Moshe Kulbak, nel poema “Vilna”) delle stradine medievali del ghetto, tra cataste di legna, sgabuzzini con attrezzi e vasi di fiori, dalla finestre aperte si sente parlare il russo. Al posto degli ebrei ammazzati sono venuti altri abitanti, da altre parti del mondo. Mi chiedo: cosa resta del genius loci? Una possibile risposta viene dalla chiesa dei Bernardini, non lontana dal ghetto. L’edificio per decenni era chiuso dalle autorità comuniste. Sul soffitto si vedono tracce di antichi affreschi. Le colonne sono crepate e l’intonaco è a pezzi. Lo scenario ricorda antiche sinagoghe da queste parti del mondo, risparmiate dalla distruzione dai tedeschi ma trasformate in magazzini dai sovietici. E allora mi viene in mente che questa è anche la città dove nasceva il romanticismo polacco e dove studiava il più grande poeta polacco di tutti i tempi, Adam Mickiewicz, che visse nell’Ottocento e combatté contro il papa nella Repubblica romana. L’incipit del suo più importante testo, che poi è la più importante opera letteraria mai scritta in polacco, recita: “Lituania patria mia”, dove un musicista ebreo non è un essere dedito ai soldi ma un generoso compagno di lotta per l’emancipazione. Lituania era la patria di un polacco perché qui era ovvio quanto la lingua non necessariamente dovesse corrispondere al territorio (e lo stesso valeva per gli ebrei). E penso all’Università, a due passi dalla chiesa dei Bernardini e dal ghetto, un edificio dai tredici cortili, fondata da un re polacco di origini ungheresi e che fu culla dell’illuminismo sempre polacco, ma non sempre cattolico: qui i calvinisti erano forti. Ecco, in questa chiesa dei Bernardini penso che l’Europa non è quella cosa cattolico-romana imperiale che si richiama a Carlo Magno, ma è una costruzione culturale potente e fragile al contempo: una specie di sincretismo o maranesimo spirituale dove le sinagoghe e le chiese finiscono per assomigliarsi e i muri comunque e sempre finiscono per cadere.
E per tornare alla casetta dove nasceva il Bund. Il fotografo Grossman nel ghetto venne costretto a offrire i suoi servigi ai tedeschi. Non si salvò: finì come quasi tutti gli abitanti, fucilato nella vicina foresta di Ponar. Ma quella foto rimane. Testimone preziosa degli sconfitti e messaggio dell’avvenire, contro la Storia.
Wlodek Goldkorn è nato in Polonia, vive a Firenze. Per anni capo della cultura dell’Espresso, ha pubblicato diversi saggi e romanzi. Il suo ultimo libro si intitola “Il bambino nella neve” (Feltrinelli).