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Opinioni
settembre, 2017

L’autunno caldo di Paolo il freddo

Il premier che doveva essere balneare e non lo fu, e che sta riuscendo nell’impresa di narcotizzare il grillismo, si ritrova oggi a dover affrontare problemi assai seri, e tutti insieme

L’autunno caldo di Paolo il freddo è cominciato in pieno agosto, quando Cesare Damiano, ex sindacalista, ?ex ministro del lavoro con Romano Prodi, oggi presidente della commissione lavoro della Camera in quota Pd, corrente non renziana, ha gridato che l’età pensionabile non ?si tocca, e dunque sfidato il governo a non prolungarla via via fino a 70 anni. Per così poco, direte voi, sono vent’anni che si litiga su questo! Vero. Ma a parte il fatto che proprio vent’anni fa un governo sulle pensioni ci cadde, e poi non è rimasto il solo, stavolta la questione si erge per così dire a metafora di una stagione, di ciò che Gentiloni ?è e di ciò che sarà, o vorrà essere. Comparsa o protagonista.

Il premier che doveva essere balneare e non lo fu, e che sta riuscendo nell’impresa di narcotizzare il grillismo, si ritrova oggi a dover affrontare problemi assai seri, e tutti insieme, e proprio non se l’aspettava. A Palazzo Chigi, infatti, come si è ripetuto fino alla nausea, è arrivato per caso e con il programma - altrui - di durare sì e no un trimestre. Contratto a termine. ?Il prossimo 12 settembre, invece, ?il suo gabinetto avrà compiuto nove mesi e superato in classifica una trentina di premier dai nomi altisonanti, tipo Moro Andreotti Craxi. E siccome a questo punto, salvo sicari nell’ombra, può arrivare a marzo 2018, a quel punto avrà doppiato l’illustre Ciampi ?e siederà accanto a Cossiga De Mita Dini. Non male per un governo nato precario. Che dall’alto del colle più alto Sergio Mattarella protegge e incoraggia.

Da lui, dunque, nessuno si aspettava sconvolgimenti. Non era nel mandato, nelle contingenze e nemmeno nel suo carattere. Arrivato dopo il referendum muscolare del 4 dicembre, per lui è stato ovvio non rottamare ma mediare, non dividere ma unire, non rompere ma smussare. E gli è andata bene: del resto, più si tiene lontano dalle eterne liti di casa Pd, più rende difficile agli altri attaccarlo. Senza contare i tanti che gli danno una mano solo per fare un dispetto a Renzi… Essere come è, poi, gli viene naturale: non è passionale, non è partigiano, non è avventato. Non è un post-comunista. Non è cattolico come il suo avo del patto omonimo, né si può dire un laico incallito; ha attraversato il ’68, ma i compagni marxisti-leninisti linea rossa (Mao) non lo hanno distolto dal suo cammino; poi ha bazzicato verdi ed ecologisti, ma senza urlare in piazza né saltare su un gommone di Greenpeace. Appunto, Paolo il freddo (copyright Fabio Martini, “La Stampa”).

E però ora più che appianare deve agire, perché lo aspettano una decina di appuntamenti decisivi. I primi due riguardano la madre di tutte le battaglie, la manovra finanziaria. ?Da una parte dovrà trovare una maggioranza al Senato disposta ?ad approvarla, e date le premesse (Damiano & C.) non sarà facile, anche se il recente via del governo al reddito di inclusione è una buona carta ?di scambio; dall’altra avrà l’obbligo ?di fermare l’inevitabile assalto dei clientes: si ripete ogni volta, figuriamoci in piena campagna elettorale. ?Il ministro Padoan, buon sodàle del premier, frena, sa che Bruxelles potrebbe concedere solo tre decimali ?di flessibilità (cinque miliardi), quindi ci toccheranno meno sacrifici, ma non ci sarà trippa per gatti. Finora una prima scelta di rottura è stata fatta e sta proprio in quello 0,3 che sa di rigore, idea opposta a quella di Renzi di ignorare per qualche anno i vincoli di Bruxelles per alimentare la crescita. ?La partita è chiusa? Non ancora. Così come è aperta la possibilità di una manovra che non si limiti a galleggiare, ma segni una svolta: però l’idea di bilanciare le misure per i giovani lavoratori con un bonus per gli anziani non va in questa direzione. Vedremo.

Terzo ostacolo, lo ius soli, sul quale - ricordate? - il governo rischiò di cadere per le spaccature dentro il Pd e l’opposizione dei grillini: un rinvio salvò tutto. Del resto, se Gentiloni rinuncia alla riforma deve subire l’ira della sinistra dentro e fuori il Pd, ma se dice ciò che pensa lui, e anche papa Bergoglio, ecco insorgere la destra. Che fare? Non mollare, e parlarne solo dopo l’approvazione della manovra. Poi ci sono le banche, e il governo ha tappato bene la falla, anche se il decreto di salvataggio (come quelli sui vaccini e sul Mezzogiorno) è stato approvato con il ricorso alla fiducia per aggirare il no dei 5Stelle. Per chiudere davvero la partita c’è bisogno ancora di un passaggio: una bad bank nazionale per i crediti deteriorati. L’idea convince Merkel e Schäuble che non a caso hanno taciuto sul salvabanche a spese dello Stato, anche perché contempla una norma apparentemente secondaria che consente a chi acquista crediti difficili di convertirli in azioni delle imprese insolventi. Un dettaglio che ?ha pesato in positivo nelle trattative con Bruxelles.

Non è finita. Ancora aperta è la vicenda Alitalia: vendita o nazionalizzazione? In sospeso il caso Fincantieri-Saint-Nazaire, anche se Gentiloni si è conquistato l’apprezzamento dei francesi («L’unico che non si è lasciato travolgere dal pomo estivo della discordia», ha scritto “Les Echos”). ?Da superare lo scoglio della nomina del governatore della Banca d’Italia: probabile il bis di Ignazio Visco, che scade a ottobre, caldeggiato dal premier e da Mattarella, ma la guerra intorno alla poltrona non si è placata. Appuntamento numero otto, i migranti. Finora è andata bene: grazie alla linea Minniti gli sbarchi si sono ridotti e ciò è bastato a ottenere da Angela ciò che Matteo non ebbe, un impegno a non lasciarci soli. Ma gli scontri di Roma ?ci ricordano che oltre all’emergenza ?c’è anche la difficoltà di governare ?il giorno per giorno.

E infine la politica, le ultime due questioni in agenda: una è la legge elettorale. Qui, certo, Gentiloni può poco, ma il tema lo tocca e come. Perché poi c’è la partita personale, la decima, quella extra mandato. Renzi insiste con il dire che capo del governo deve essere il capo del partito che arriva primo. Logico. Un po’ meno con il sistema proporzionale che non lascia intravedere un solo vincitore. Allora toccherà a una coalizione che può nascere solo da un’intesa sul nome del premier. E per molti non può essere Renzi. Allora delle due l’una: ?o il leader del Pd manda tutto all’aria ?e si prepara all’eventualità (disegno?) di tornare a votare dopo sei mesi, ?o si adatta all’idea di un altro nome: ?e chi meglio di colui che ha assicurato il dopo referendum e mostrato che ?si può governare senza rotture? Paolo Gentiloni, che doveva restare fino ?a marzo, che a maggio era dato ?per finito, che oggi è ancora lì. ?It’s a long way.

Twitter @bmanfellotto

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