Umiliate dai capi maschi. Costrette a orari incompatibili con la famiglia. In un settore in cui gli uomini sono quasi sempre  i soli a far carriera. Ecco le storie delle dipendenti dei mall, sotto le feste

C . non sa ancora a chi lascerà suo figlio domenica prossima, quando alle 5.30 del mattino, uscirà di casa per andare a lavorare in un ipermercato. G. vorrebbe licenziarsi, dopo che l’addetto alla sicurezza del centro commerciale l’ha chiamata “animale”. M. può andare in bagno solo «quando ci sono le condizioni», altrimenti ricorre ad un secchio in magazzino. A T. è vietato parlare con la collega che lavora nel corner accanto al suo, per non disturbare la “shopping experience” dei clienti. D. è stata portata nel deposito dalla manager, che le ha dato uno “schiaffetto” per non aver seguito le sue istruzioni.

Benvenuti nel mondo degli acquisti. Centri turistici, supermercati, boutique e gallerie commerciali dove le luci abbaglianti, lo scintillio fantasmagorico delle vetrine e la fragranza dei profumi sono tutto un cerimoniale. Ma dietro ai sorrisi accoglienti degli addetti alle vendite si possono nascondere stress e frustrazioni. E a pagarne le conseguenze sono soprattutto le donne.

«Ce ne sono tante che non riescono a fare carriera, perché hanno molte più cose a cui pensare. Per questo, in un supermercato, ai vertici troverai sempre uomini», dice A., che lavora dal 1999 per uno dei più grandi gruppi della Grande Distribuzione Organizzata. In quasi vent’anni, non le è mai stato riconosciuto uno scatto di carriera. Secondo l’Osservatorio JobPricing, che ha aggiornato i dati del Global Gender Gap Index (World Economic Forum), in Italia «l’accesso delle donne alle posizioni di vertice resta ancora molto basso» nonostante dal 2007 al 2017 sia stato registrato un incremento di circa 4 punti. Ma anche a parità di inquadramento, «nel 79 per cento dei casi analizzati, gli uomini hanno retribuzioni superiori». Il differenziale salariale medio tra uomini e donne nel Paese è del 10,4 per cento, ma se si guarda al campo del commercio, dove la presenza delle donne è pari a quella degli uomini, il gap si riduce al 4.9 per cento. Anche dove le donne sono di più, quindi, gli stipendi restano più bassi di quelli dei loro colleghi uomini.
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Ma alla base del quadro retributivo c’è un discorso di opportunità, che in questo settore, sono molto diverse per gli uomini e per le donne, complice il fatto che sono sempre le seconde a dover colmare l’assenza di un welfare. «Figuriamoci se mi fanno avanzare con una 104. Io dal 2009 sono ancora al IV livello, sono una semplice commessa” A. usufruisce della legge 104, il congedo straordinario che possono richiedere i lavoratori che assistono i familiari disabili. Sua figlia è affetta dalla sindrome di Down, ma tutti i giorni, in casa con lei da 10 anni, c’è una ragazza che la segue, quando A. è a lavoro, domenica inclusa.
Sono le donne, secondo precisi meccanismi di segregazione occupazionale, a farsi carico di tutti quei servizi che il pubblico ha smesso di erogare. E così, anche quelle che lavorano nel commercio subiscono l’inganno di credere di poter scegliere ritmi e contratti di impiego, finendo poi per svolgere un doppio lavoro, dentro e fuori casa.

«Oggi mi è arrivata la notizia che farò due chiusure a settimana. Questo vuol dire arrivare a casa a mezzanotte. Ma io quando potrò stare con mio figlio?», è lo sfogo di M., che lavora in una boutique di lusso di un centro commerciale. Spesso il tempo è talmente poco, che si rinuncia anche ad avere relazioni affettive. «Io noto che in questo settore o siamo tutte single o divorziate, anche a causa del lavoro. Come fai a fare in modo che la tua vita non vada a rotoli?», racconta F.

Oltre alla cura della famiglia, infatti, le donne impiegate nel settore riescono a malapena a concedersi una messa in piega a settimana e spesso, neppure quella.
«Gli acquisti si sono spostati nel week end e non solo per la gente che lavora, anche per chi il tempo ce l’avrebbe. Durante la settimana si va dal parrucchiere o in palestra, poi quando ci si ricorda di far la spesa? Nel week end. Ma io non ho lo stesso diritto di andare dal parrucchiere o in palestra?». V. lavora da circa 20 anni in un negozio di un mall commerciale. «Dal gennaio 2012 ci siamo visti consegnare una circolare dalla direzione del centro che diceva che dalla domenica successiva saremmo stati aperti. Da allora il tempo per me stessa e per la mia famiglia si è dimezzato».

Il lavoro domenicale è donna. Lo dice l’Istat, che ha calcolato al 61,1 per cento la componente femminile impiegata l’ultimo giorno della settimana. Il mondo del commercio è cambiato rapidamente negli ultimi anni. Al centro del recente dibattito, le norme prese a suo tempo dal governo Monti, che hanno completamente liberalizzato gli orari di apertura. Cinque sono le proposte attuali riguardanti le chiusure domenicali sul tavolo della Commissione Attività Produttive della Camera. Contrari o favorevoli, gli italiani si dividono sulla sacralità dei consumi e delle festività.

Stando ai numeri di Federdistribuzione, le aziende spendono 400 milioni di euro per pagare il lavoro domenicale che - come recita il Ccnl del Commercio attualmente in vigore - è remunerato con una maggiorazione del 30 per cento. 400 milioni di euro che equivalgono a 16 mila occupati full time in più. L’ultimo giorno della settimana rappresenta il 10 per cento del fatturato delle grandi catene commerciali. Secondo l’associazione di categoria, le chiusure domenicali potrebbero produrre circa 40 mila esuberi.

In un comunicato stampa, la Filcams Cgil - riferendosi alle liberalizzazioni degli ultimi anni - parla invece di «una riduzione dell’occupazione pari almeno al 20 per cento» nella grande distribuzione. A cui «si deve aggiungere il dato relativo alla diffusione di processi di terziarizzazione ed esternalizzazioni di parti rilevanti delle attività commerciali».
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A dirlo da anni è Francesco Iacovone, sindacalista dei Cobas lavoro privato, onnipresente nella difesa dei lavoratori. «Le liberalizzazioni del 2012 non hanno rappresentato uno sprone all’occupazione», dice il sindacalista. «Anzi, hanno peggiorato le condizioni di lavoro, rendendolo precario. Per coprire le domeniche sono stati utilizzati gli stessi lavoratori, i cui turni sono stati spalmati su tutta la settimana. C’è stata una proliferazione dei contratti a termine, del lavoro somministrato e a chiamata, degli stage e dei tirocini. Con questi ultimi, lo stipendio è ben al di sotto degli indici di povertà calcolati dall’Istat».

Secondo le fonti sindacali, circa il 70 per cento dei lavoratori è costretto ad avere un impiego part time. «In questo quadro è soprattutto sulle donne che si è abbattuta la scure dello sfruttamento», dice Francesco Iacovone.

«Tempo per me? Non so cosa sia! L’unico tempo libero che ho fuori dal negozio lo passo a casa o con la mia famiglia. Non potrei mai concedermi 2 ore per andare dall’estetista!» racconta E.
«Io faccio parte di un ramo d’azienda quindi siamo in pochi. Siamo meno di 15 dipendenti, ma la domenica siamo in tre. C’è una turnazione, una domenica ogni 3, oppure ogni 4, ma non sempre viene rispettata. Io ad esempio questo mese ne ho fatte 3». E. ha scelto un contratto part time, pensando di poter trascorrere più tempo con la sua famiglia, ma i giorni di riposo sono un miraggio. «La domenica lavoro per 15 euro lordi in più. Non ne vale la pena».

Dalle testimonianze raccolte emergono storie di pressioni e di discriminazioni sul posto di lavoro. Appare così un pezzo del mondo del commercio, con le corsie intasate da umiliazioni quotidiane, flaconi di ansiolitici ingurgitati come caramelle. Oltre che dallo sfruttamento. «Volti anonimi e sfoghi invisibili», come li definisce Francesco Iacovone.

A E. la valutazione bimestrale è stata recapitata in uno sgabuzzino, perché si era permessa di difendere una sua collega. «A tutti era stata consegnata in ufficio, a me invece no. Mi è stato urlato: “Vai a fare la paladina della giustizia da un’altra parte! Qua dentro la legge sono io!”».

«Per quattro mesi ho lavorato 40 ore alla settimana, guadagnando 600 euro come tirocinante». Solo dopo 3 anni, F. ha avuto il primo contratto da addetta alle vendite in un negozio di accessori, che è durato 10 giorni. Ha subito mobbing dal suo superiore e ha deciso di andarsene. «Dai, più veloce, non voglio giustificazioni, devi lavorare», le diceva. Oppure arrivavano le minacce. «Ti vedo appoggiata al muro a non far niente, io questi capelli te li strappo tutti!».
Anche Z. non ce l’ha fatta più. «Sono stata malissimo. Ho iniziato a perdere i capelli e ad avere una gastrite cronica, che ho ancora adesso. Lo stress ti corrode lo stomaco». Z. spendeva tutto il suo tempo nel negozio di abbigliamento in cui lavorava. Sotto pressione, come se avesse dovuto tagliare un traguardo. Vendita e profitti erano le parole d’ordine. E le sue performance erano calcolate attraverso una serie di indicatori. Come il “convertion rate”, che associa il numero degli scontrini battuti agli ingressi nel negozio. Un parametro che influisce nel rapporto di lavoro. “«Se non portavi i risultati prefissati dal tuo superiore, non valevi niente. Dovevi sempre superare il tuo limite», racconta.

N. invece ha firmato un regolamento comportamentale, emesso dal centro commerciale, non previsto dal contratto dell’azienda per cui lavora. Abbigliamento sobrio, trucco naturale e leggero, capelli pettinati e ordinati. N. non può mai - senza previa e giustificata autorizzazione del suo superiore - allontanarsi dalla propria postazione. Durante il turno di vendita non può mangiare o masticare una chewing gum nei corridoi e nelle sale, non può intrattenersi con parenti e amici, non può utilizzare il cellulare.
Nel regolamento però, la perquisizione della borsa da parte degli addetti alla sicurezza all’uscita dal centro commerciale, non è prevista. N. lo sa, ma non può fare altrimenti. «A chiusura, mi hanno chiesto di aprire la borsa, perché dovevano controllare. Che cosa poi? Te lo dicono con il sorriso, perché sanno che non lo potrebbero fare».

«Come si educano le pulci per non farle saltare? », dice Francesco Iacovone. «Si mettono dentro un vasetto con un coperchio. Saltano e sbattono, fino a quando non capiscono che non devono più farlo, ammaestrate dal dolore. In quel momento le puoi tenere sottomesse per tutta la loro vita».

Da noi contattate, le associazioni di categoria del commercio hanno risposto.

L’Associazione Nazionale di rappresentanza della cooperazione di consumatori - che rappresenta 1.100 punti vendita con 57 mila dipendenti - dichiara che «oltre il 94 per cento dei lavoratori sono a tempo indeterminato, 68,8 per cento sono donne», con il 33,5 per cento delle posizioni direttive ricoperte. Sulle aperture domenicali l’Ancc è a favore di una loro regolamentazione e specifica che l’attuale contratto nazionale prevede maggiorazioni dal 35 al 100 per centorispetto al lavoro feriale. «Inoltre, spiega l’Ancc, «esistono attenzioni particolari per limitare il lavoro domenicale in casi come personale dipendenti con bambini piccoli, oltre a casi di patologie documentate e a dipendenti che usufruiscono della 104».

Federdistribuzione, contraria alle chiusure domenicali, afferma che nelle sue associate l’83 per cento dei lavoratori impiegati l’ultimo giorno della settimana è a tempo indeterminato. I contratti integrativi concedono maggiorazioni che variano dal 30 all’80 per cento e non esiste l’obbligatorietà al lavoro domenicale per le donne con un bambino di età inferiore ai 3 anni. L’associazione sottolinea che nelle sue aziende sono state istituite commissioni paritetiche con il sindacato contro la violenza di genere e che il mobbing non è un fenomeno rilevante.

Confcommercio apre però al dialogo sulle aperture domenicali. »Ridiscutere con atteggiamento non ideologico il ruolo della distribuzione è un primo passo importante e condivisibile. L’obiettivo deve essere quello di evitare gli errori del passato e di valorizzare il nostro modello plurale fatto di piccole, medie e grandi imprese per assicurare il massimo del servizio e della qualità alle famiglie e ai consumatori».