È un gioiello architettonico e un monumento storico. Eppure l'ex ergastolo di Ventotene va in rovina. E trascina con sé l'economia dell'isola. Che spera nel ministro Franceschini. Perché riparta finalmente il recupero dell'edificio che rinchiuse Settembrini, Spaventa e Pertini
All’ex ergastolo di Santo Stefano una delle ultime visite ufficiali della stagione è iniziata alle 10 di domenica 29 settembre. Cinquanta turisti imbarcati su un gommone e un gozzo hanno lasciato il porto romano di Ventotene, scavato nel tufo duemila anni fa, e in pochi minuti sono arrivati alla Marinella che era ed è il molo per approdare sull’isolotto. Da qui sono passati, nei quasi due secoli di vita del carcere, migliaia di ergastolani e di prigionieri politici. E tra questi ultimi basta ricordare Luigi Settembrini, Silvio Spaventa, Umberto Terracini, Sandro Pertini… Ma oggi è difficile chiamarlo molo. Il gommone e il gozzo non hanno una bitta a cui assicurarsi, i barcaioli si tengono vicini a terra con le mani e i turisti vengono sbarcati “a braccia” e saltano su dei gradini scivolosi appena rinforzati da un po’ di cemento. Quando l’ultimo visitatore ha toccato terra gommone e gozzo si allontanano. Torneranno dopo due ore per l’operazione inversa: imbarcare “a braccia” per riportare tutti al porto romano.
Una volta sull’isolotto si capisce subito che quello che si sta per visitare è qualcosa di molto prezioso conservato però con poca cura. Quella che una volta era una efficiente rimessa per le masserizie oggi è un rudere lasciato all’erosione del vento e del mare. L’inizio della ripida strada che porta al carcere è fatto di gradini modellati nella pietra e corrosi dal tempo, bagnati e sconnessi.
[[ge:rep-locali:espresso:285336363]]Salvatore Schiano di Colella, il ventotenese che del carcere è tutto (studioso, guida storica, custode, “manutentore” per decenni…) aspetta che il gruppo sia radunato per fare le sue raccomandazioni. «Salire piano, ciascuno secondo il proprio passo e guardando bene dove si mettono i piedi, con calma, senza fretta». E la salita inizia. Sono cinque-seicento metri che, se ci si ferma ogni tanto per voltarsi indietro, aprono la vista sul braccio di mare che separa l’isolotto e sull’isola madre lunga e bassa: quando la giornata è luminosa se ne resta affascinati.
Stradello, gradini, stradello ed ecco, a sinistra, le mura del carcere. Chi non è mai stato fin quassù non può non restare colpito dalla loro imponenza e dalla loro capacità di rinchiudere, di separare il mondo di dentro da quello di fuori. Chi invece non sale qui per la prima volta si sofferma su piccoli particolari. Su un muro più sbrecciato dell’anno scorso, su un cartello che vieta il passaggio e che l’altra volta non c’era, sulla passerella di acciaio che consente di passare laddove prima continuava il sentiero.
Ma sono le reti metalliche che segnano rigidamente il percorso e i ripetuti segnali di pericolo a trasmettere a tutti un senso di abbandono e di degrado. Infine l’arrivo sulla piazza della Redenzione, la piazza che era il cuore della cittadella carceraria e sulla quale si affaccia l’ingresso del reclusorio. Davanti agli occhi del visitatore c’è una palazzina che sta, letteralmente, crollando. È la palazzina della direzione, quella dove viveva il direttore del carcere.
Ecco, è da qui che inizia la visita al carcere che Salvatore conduce con consumata sapienza, cercando l’attenzione del suo pubblico, senza mai annoiare, regalando a tutti la sua profonda conoscenza della storia di Santo Stefano, dei suoi protagonisti, contrapponendo aneddoti a passaggi storici cruciali, piccole storie a grandi storie. Spiegando che quello che si sta visitando, costruito nel 1795 da Antonio Winspeare su progetto di Frncesco Carpi, è uno dei migliori esempi di panopcticon, la struttura architettonica ideata alla fine del Settecento da Jeremy Bentham.
Prima di entrare nel carcere c’è la sosta davanti alla lapide che ricorda il passaggio su quest’isola del futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini, rinchiuso qui dal Tribunale speciale istituito dal fascismo. Poi, quasi in fila indiana, si superano i portoni e le cancellate, pochi passi che per chi li compiva con le catene ai polsi significavano l’espulsione dal consesso civile, l’ingresso in quella che era stata definita la “tomba dei vivi”.
Appena dentro ti aggredisce una sensazione di cupa grandiosità. Le balconate, le celle in circolo, la cappella centrale che sembra un occhio su tutto. Ma poi abbassi lo sguardo e ti concentri sui particolari. Vedi anche qui reti metalliche e cartelli di pericolo, dappertutto. Chi è già stato qui si accorge immediatamente che gli spazi ora visitabili sono ancora di meno: un piccolo spiazzo e quattro celle, il resto è vietato. Le scale sono diroccate, la copertura dell’ultimo piano pericolante, le piante infestanti stanno conquistando gli spazi interdetti al pubblico. E la sensazione di pericolo è così forte che Salvatore, quando tutti sono dentro, torna indietro a chiudere il portone perché nessuno si avventuri da solo sull’isola.
Quando torna inizia a parlare ed è come se il degrado che ci circonda sparisse. Ci si immerge in storie d’altri tempi e in storie più vicine a noi, ci si immagina rinchiusi in una cella, si pensa, quasi senza accorgersene, a cosa si proverebbe se si fosse un “sepolto vivo”. Si capisce, ancora di più, che si ha il privilegio di essere nel cuore di un monumento, di un luogo che è diventato memoria storica del nostro paese per tutte le vite che qui si sono incrociate, per le sofferenze che ha inferto, per i sogni di libertà che ha generato. Ma allora perché è ridotto così? Perché lo si lascia crollare rendendo sempre più difficile e costoso qualunque progetto di recupero?
Il carcere è stato chiuso nel 1965 e dopo qualche mese è rimasto praticamente abbandonato a sé stesso: chiunque poteva salirci. È stato saccheggiato, i macchinari smontati, le celle devastate… Nel 1987 il primo passo per proteggerlo. Viene dichiarato “Bene di interesse particolarmente importante” dal ministero dei Beni Culturali. Nel 2008 l’isola diventa “Monumento nazionale” con un decreto del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. «In tutti questi anni qualcosa è stato fatto, ma veramente poco e, comunque, non è servito a migliorare di molto la situazione, ad allargare il percorso di visita», ricorda Salvatore Schiano di Colella. «Io, che avevo la concessione del Comune per le visite guidate, ho cercato di fare la mia parte: ho pulito, aggiustato, tenuto su, fatto, insomma, quello che potevo e, forse anche un po’ di più».
All’inizio del 2016 quella che sembra una svolta. Il governo (presidente del consiglio è Matteo Renzi) stanzia 70 milioni di euro destinati al «recupero e alla valorizzazione della struttura». Ma il carcere sta sempre peggio e pochi mesi dopo, nell’estate dello stesso anno, l’amministrazione comunale decide la sospensione delle visite perché la struttura non è sicura.
[[ge:rep-locali:espresso:285336359]]Per due anni nessuno sale più a piazza della Redenzione. E il flusso turistico di Ventotene ne risente in modo significativo. «Il carcere ha una grande forza di attrazione», spiega Fabio Masi, che sull’isola ha la libreria Ultima spiaggia, una sorta di salotto-luogo di incontro-centro culturale. «Me lo dice chi viene qui a comprar libri, lo dicono i dati economici del turismo. E lo dice la storia: ancora oggi come quando il carcere era aperto buona parte dell’economia di Ventotene è determinata dall’indotto di Santo Stefano». Sono passati tre anni e mezzo ed è stato speso solo poco più di un milione dei 70 stanziati nel 2016. È servito per realizzare un eliporto inaugurato il 2 agosto 2017 e che da allora non ha più visto un elicottero.
Adesso al Ministero dei Beni culturali è tornato Dario Franceschini che conosce bene la questione, fu proprio lui a inaugurare l’eliporto e, insieme alla presidenza del Consiglio, a dare il via al tavolo tecnico che deve stabilire quali lavori fare e a chi assegnarli.
Ed è su di lui che fa adesso affidamento chi vuole salvare l’ex ergastolo dalla distruzione. A cominciare da Francesco Carta, l’assessore di Ventotene responsabile del recupero di Santo Stefano. «Abbiamo fatto e facciamo i salti mortali per continuare a fare le visite guidate», dice. «Ma non basta, deve partire il piano di recupero. Noi abbiamo fatto tutto quello che serve per avviarlo, anche proposte tecnicamente definite. E sappiamo che per metterlo in sicurezza servono 25 milioni».
Guido Garavoglia è fondatore e presidente dell’Associazione per Santo Stefano in Ventotene, una onlus nata per sostenere il recupero dell’ex ergastolo. «Spero che il tavolo tecnico», dice, «venga convocato il prima possibile. Perché il tempo a disposizione è veramente poco. Lo stanziamento scade alla fine del 2020 e la prima cosa da fare è prorogarlo, non perdere i soldi. Noi, come associazione, abbiamo fatto concrete proposte per l’ex ergastolo, le abbiamo discusse più volte nei convegni pubblici che abbiamo organizzato, le abbiamo depositate al tavolo tecnico istituito alla presidenza del Consiglio».
Per Anthony Santilli, che dirige il Centro di ricerca e documentazione sul confino politico e la detenzione istituito dal Comune di Ventotene, il recupero del carcere è cruciale per il futuro del piccolo arcipelago. «L’investimento, se si riuscirà a realizzarlo in modo mirato ed efficiente, avrà importanti ricadute positive anche su Ventotene, non c’è dubbio. Anzi, direi che va visto come un investimento su tutte e due le isole per valorizzarne l’offerta culturale e scientifica. Sarebbe lo strumento più indicato per favorire una destagionalizzazione dei flussi turistici, oggi concentrati soprattutto nel periodo estivo. Anche per questo è nato il Centro».
Su cosa fare a Santo Stefano il dibattito resta aperto. Un centro di studi europei strettamente collegato con Ventotene che ha dato il proprio nome al manifesto considerato l’atto fondante dell’Unione europea? Un museo, oltre che di sé stesso, anche del sistema penitenziario italiano ed europeo? Tutte e due le cose? Solo la seconda? «L’importante è che si faccia qualcosa, subito. Vedere quelle mura crollare poco a poco fa male. Non lo dico per me, che a quelle mura sono affezionato. Lo dico per quello che hanno rappresentato e rappresentano», dice Salvatore Schiano di Colella.