Siamo entrati in uno dei centri di detenzione libici dove i migranti vengono rinchiusi e torturati. Mentre il nostro governo sta per rinnovare l’accordo con il paese africano

La "gabbia"
Un pomeriggio di metà ottobre a Zawhia, città sessanta chilometri a ovest di Tripoli. Le foto ritraggono un gruppo di uomini mentre tagliano un nastro. È un’inaugurazione. Uno di loro è il sindaco di Zawhia, l’altro il proprietario della nuova clinica privata di zona. Un edificio moderno, che porta sulla facciata d’entrata la scritta: Al Nasr Medical Center, il centro medico al Nasr. Le fotografie caricate fieramente sul sito del municipio vengono rimosse poche ore dopo. Troppo imbarazzo, troppa - forse - la paura delle critiche internazionali. Insieme al sindaco anche il consigliere del Consiglio presidenziale Fathi Al-Hanqari e un membro della Camera dei rappresentanti del consiglio di Tripoli, Ali Abu Zrib.

Il proprietario della clinica che in pompa magna taglia il nastro di fronte alle istituzioni è Mohammad Koshlaf, comandante della brigata al Nasr (che, appunto, dà il nome alla struttura medica), capo delle Petroleum Facility Guards, cioè le guardie armate della raffineria di zona, nonché di fatto a capo del centro di detenzione dell’area che - nomen omen- si chiama anch’esso Al Nasr. La vittoria.

Riavvolgiamo il nastro. È il gennaio del 2017, Mustafa Sanalla, presidente della National oil corporation (Noc), fa un passo senza precedenti e per la prima volta in un evento pubblico nomina il capo delle Pfg, le Guardie delle strutture petrolifere occidentali, Mohamed Koshalf, come parte attiva del traffico di carburante. Lo accusa di contrabbandare greggio all’estero e accusa pubblicamente i suoi uomini di pratiche criminali, descrivendo la brigata Nasr come un gruppo composto di gangster impegnati in crimini internazionali e crimini economici che danneggiano le casse libiche, privandole di milioni di dinari di introiti. Soldi dei ricavi della vendita del petrolio che avrebbero dovuto essere impiegati per la ricostruzione delle infrastrutture, pozzi d’acqua, miglioramento della rete elettrica e invece sono finiti nelle tasche dei banditi. Passano pochi mesi e il nome di Koshlaf compare nel report del panel di esperti delle Nazioni Unite, che lo descrivono come uno dei più potenti trafficanti di uomini e carburante dell’area.
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«Il capo della guardia delle strutture petrolifere di Zawia, Mohamed Koshlaf (Kishlaf), noto anche come Kasib o Gsab, è coinvolto nell’approvvigionamento di carburante per i trafficanti. Comanda anche la cosiddetta milizia Nasr. Suo fratello, Walid Koshlaf, noto anche come Walid al-Hadi al-Arbi Koshlaf, gestisce la parte finanziaria dell’azienda. Il capo della Guardia costiera in Zawia, Abdul Rahman Milad (alias Bija), è un importante collaboratore di Koshlaf nel settore dei carburanti». (Rapporto del panel di esperti Unn Libia 2017).
Passa un altro anno e il nome di Koshlaf compare in un’altra lista, quella dei sei uomini sanzionati dalle Nazioni Unite, per le stesse ragioni. Dunque blocco dei beni e divieto di viaggio.

È la prima volta che l’Onu impone sanzioni internazionali a trafficanti di esseri umani. Insieme a lui a essere sanzionati sono altri tre cittadini libici e due eritrei. Uno di loro è Abdul Rahman Milad, detto Bija. Che di Koshlaf è cugino e - di fatto - dipendente.

«Sulla costa, i principali facilitatori hanno sede a Zawia, Zuwara e Sabrata. Includono i comandanti del gruppo armato Mohamed Koshlaf e Ahmed Dabbashi (alias Amu). Il comandante della Guardia costiera Abd al-Rahman Milad (alias Bija) collabora con Koshlaf. Il principale sito di partenza sembra essere Talil Beach, nel complesso turistico di Sabrata». (Rapporto del panel di esperti Unn Libia 2017).

Secondo le accusa delle Nazioni Unite, infatti, l’unità della Guardia costiera di Bija intercetta le barche che trasportano migranti quando si tratta di clan rivali, lasciando partire solo quelle gestite dalla brigata al Nasr. Per i migranti catturati un’unica sorte: tornare in detenzione, naturalmente nel centro al Nasr.
Il clan al Nasr descrive perfettamente l’ecosistema Libia. Le Pfg, le guardie della raffineria di zona, sono organismi ufficiali di sicurezza dello Stato libico, hanno cioè l’incarico ufficiale di proteggere le installazioni petrolifere, ma - nella debolezza del Consiglio di presidenza di Sarraj - le Pfg di fatto tengono in ostaggio la raffineria. E di conseguenza la ricchezza che ne deriva. È il cuore della questione libica: chi comanda cosa? Qual è il confine tra l’ufficialità e la criminalità? È anche il cuore delle relazioni tra la Libia e il nostro Paese: chi sono davvero i nostri interlocutori?
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Il primo giorno in cui Abdul Rhaman Milad ci riceve è proprio a Zawhia. Ci dà appuntamento in un ufficio, lungo la strada dove si trova il centro di detenzione.
È la sede della clinica al Nasr, l’ufficio si trova sul retro. Bija parcheggia il suo Suv e ci chiede di entrare. Ci ritroviamo - inaspettatamente - nella stanza di Mohammed Koshlaf.
Bija ci guarda, ironico. Dice: «Ci siamo già visti?». No. «Forse in Italia», dice, ridendo, consapevole che la sua visita del maggio 2017 sarà il fuoco della nostra conversazione. Koshlaf è scuro in volto, vuole sapere chi siamo, cosa vogliamo, che domande faremo. Sul tavolo tre telefoni e altrettanti pacchetti di Marlboro rosse. La televisione al plasma in diretta dalle proteste di piazza a Beirut. Koshlaf ritiene che Bija non debba parlare, non lì. Non a Zawhia. Non in abiti civili. Serve che parli in divisa, nella sede ufficiale della Guardia costiera, di fronte ai vertici dell’istituzione che lo rappresenta, la Marina libica.

Di nuovo, la Libia camaleontica. Il negoziato si fa a Zawhia, dove gli affari sono tutti in mano al clan, l’ufficialità si consuma nella base della Marina di Tripoli, di fronte al controllo vigile di Ayub Qassim, portavoce della Guardia costiera che orgogliosamente presenta Bija come uno dei suoi uomini migliori, quello che ha raggiunto più risultati, che con più dedizione si è battuto contro trafficanti e Ong.
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«Che altro volete fare qui a Zawhia?», ci chiede Koshlaf. Entrare nel centro di detenzione, diciamo noi.
Scuote la testa, in segno di diniego. Decide lui, perché a Zawhia tutto è in mano al clan. Anche le trattative ufficiose, quelle che nell’estate del 2017 avrebbero portato al rapido e drastico crollo delle partenze. Il Memorandum d’Intesa tra l’Italia e la Libia datava febbraio 2017, nell’estate al centro della discussione finì il Codice di condotta voluto dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti per le Ong che operavano nel Mediterraneo.

Proprio L’Espresso quell’estate, attraverso una fonte a Zawhia, che lavorava nella sicurezza delle aziende internazionali nell’ambito del settore petrolifero, scrisse di una trattativa segreta tra funzionari italiani e il clan Dabbashi che controllava la costa di Sabratha. A quelle rivelazioni, smentite dal governo di allora, oggi si aggiungono altri tasselli.

Una fonte a Zawhia rivela a L’Espresso che a mediare la trattativa con i clan locali (dunque al Nasr) sarebbe stato un altro membro della famiglia, Walid Koshlaf, avvocato, imprenditore, che secondo le Nazioni Unite gestirebbe la parte finanziaria del gruppo. E curiosamente non è nella lista delle sanzioni.
Ma cura gli interessi del clan. Perché a Zawhia tutto è di famiglia.

Ma torniamo al centro di detenzione al Nasr. Lo scorso settembre un’inchiesta coordinata dalla Procura di Agrigento contesta per la prima volta in Italia il reato di tortura a tre arrestati. Il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio dice: «Questo lavoro investigativo ha dato conferma delle inumane condizioni di vita all’interno dei cosiddetti capannoni di detenzione libici e la necessità di agire, anche a livello internazionale, per la tutela dei più elementari diritti umani e per la repressione di quei reati che, ogni giorno di più, si configurano come crimini contro l’umanità».
I tre arrestati sequestravano i migranti in Libia e li lasciavano partire solo dopo mesi di abusi torture ed estorsioni. Nel centro di detenzione al Nasr di Zawhia, lo stesso dove opererebbe Bija, che compare nelle dichiarazioni delle vittime dei torturatori arrestati come uno dei capi del centro.

Bija viene descritto dal Global initiative against transnational organized crime come un «membro dell’ecosistema, anche se il suo profilo non è in alcun modo vicino alla scala degli altri, tra cui i cugini e i compagni di milizia». Bija è un pezzo della catena, un pezzo del sistema Libia che genera - giustamente - l’indignazione collettiva. Ma il sistema è ben più opaco, ramificato, più alto di livello. Siede a tavoli diversi, non ha bisogno di uniformi. Sceglie altre sedi per le proprie trattative, per quelle ufficiali e per quelle ufficiose.
Riavvolgiamo di nuovo il nastro. Febbraio 2017. Il testo del Memorandum di intesa, all’articolo 2 recita: «Le Parti si impegnano altresì a intraprendere azioni nei seguenti settori: adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza summenzionati già attivi nel rispetto delle norme pertinenti, usufruendo di finanziamenti disponibili da parte italiana e di finanziamenti dell’Unione europea. La parte italiana contribuisce, attraverso la fornitura di medicinali e attrezzature mediche per i centri sanitari di accoglienza, a soddisfare le esigenze di assistenza sanitaria dei migranti illegali, per il trattamento delle malattie trasmissibili e croniche gravi».

Significa che i centri di detenzione (non di accoglienza) usufruiscono di soldi italiani. I centri come quello di Trik al Sikka, che abbiamo visitato lo scorso 21 ottobre. Si trova a Tripoli, proprio di fronte alla sede del punto di transito dell’Unhcr, che dovrebbe servire come luogo di passaggio per ricollocare i migranti con i corridoi umanitari, ma che è diventato di fatto un altro centro.

C’erano più di trecento persone. Cinque bagni, otturati. E non c’era acqua, né cibo per tutti. Gli uomini erano scalzi e indossavano ancora gli abiti che avevano quando sono stati catturati in mare. I centri come quello di Zawhia, come quello al Nasr, in onore del clan. Centri che dipendono dal ministero dell’Interno libico, più precisamente dal Dcim, il dipartimento contro l’Immigrazione clandestina.
Centri dove arrivano i nostri soldi. E dove arriveranno ancora se il 2 novembre prossimo, come prevede l’articolo 7 del testo, il Memorandum si rinnoverà automaticamente. Il tacito accordo Italia-Libia ora sta animando la discussione interna al governo, come affermato dal presidente del Consiglio Conte: «Faremo delle riunioni governative per valutare nel merito del prosieguo dell’accordo con la Libia. Poi valuteremo in trasparenza come comunicarlo e confrontarci con il Parlamento».
Siamo andati a bussare alla porta del direttore del Dcim, nominato sei mesi fa per riformare l’ente. È un uomo sincero El Mabruk Abulhafid.
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«Sappiamo che ci sono dei centri che non sono sotto il controllo del governo ma sono in mano ai gruppi armati. Abbiamo cominciato a chiudere dei centri di detenzione che non rispettavano gli standard e le regole. Vogliamo chiudere anche il centro di Zawhia». Lo dice con coraggio, Abulhafid, sapendo che il suo lavoro sarà sottoposto alle minacce più o meno velate di chi vede minati i propri interessi, sapendo di sedere su una poltrona scomoda a metà tra il coinvolgimento delle istituzioni e quello delle mafie, ma sapendo anche che ci sono tanti libici come lui, con un alto senso del dovere e rispetto dei diritti umani. Che avrebbero meritato più fiducia, e meno realpolitik.