La classe dirigente voleva l’Unione per educare il popolo, mentre il popolo la voleva per sbarazzarsi della classe dirigente. E così alla fine nessuno ha avuto quello che voleva

Il murale di Bansky a Dover
Da una parte Lega e Movimento 5 Stelle - due partiti critici dell’Unione Europea, seppure con toni e sfumature differenti - continuano a raccogliere nei sondaggi il 60 per cento delle preferenze, a quasi dieci mesi dalla nascita del governo Conte. Dall’altra però, sempre stando ai sondaggi, negli ultimi tempi il consenso nei confronti dell’Europa e dell’euro sembra essere cresciuto in misura notevole. Come si spiega quest’apparente contraddizione?

Provo ad avanzare una spiegazione, senza pretendere che sia esaustiva: nel rapporto fra l’Italia e l’Europa, una parte almeno dei problemi è generata non dagli innegabili e macroscopici difetti del processo d’integrazione continentale, ma dal pessimo uso che di quel processo ha fatto l’Italia. In particolare, dal doppio pessimo uso che ne hanno fatto le sue classi dirigenti da un lato e le sue classi dirette dall’altro, in conflitto e competizione fra di loro. L’Europa insomma - questa la tesi che cercherò di dimostrare - è diventata strumento della secolare guerra civile italiana fra élite e popolo. Con un’aggravante: che quella guerra l’hanno perduta entrambi.
Che la storia d’Italia, prima e dopo l’unificazione, sia stata segnata da una relazione particolarmente turbolenta fra classe dirigente e classe diretta, è questione ben nota sulla quale si è scritto moltissimo, e in questa sede non è certo possibile affrontarla nemmeno per sommi capi. Quel che ci interessa qui è osservare come, a partire grosso modo dalla seconda metà degli anni Settanta, l’Europa sia stata risucchiata nell’ingranaggio perverso di quella relazione - rendendolo ancora più perverso, e portando l’approccio all’integrazione continentale su un sentiero vizioso. Il movimento, come detto, è stato doppio.

Le classi dirigenti - o per lo meno alcuni settori delle classi dirigenti, che sono riusciti però a realizzare una parte consistente del proprio programma - hanno visto nell’Europa, e in particolare nella convergenza monetaria, lo strumento ideale per riportare all’ordine una società italiana che, storicamente afflitta da un eccesso di frammentazione e particolarismo oltre che da robuste propensioni anarcoidi, a partire dalla fine degli anni Sessanta aveva per giunta cominciato a esercitare sulle finanze pubbliche una pressione insostenibile. Scriverà Guido Carli, il più illustre fra i sostenitori di questa strategia: «La nostra scelta del “vincolo esterno” nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese». L’intento è nobile: costringere l’Italia a restare su un sentiero virtuoso lungo il quale da sola non saprebbe camminare. Ma il progetto è assai rischioso, poiché si tratta in buona sostanza di rivolgere il processo d’integrazione contro l’Italia per com’essa è realmente.

L’Italia è stata per lunghi decenni il Paese più europeista del continente. Una componente significativa di questo sentimento derivava proprio dalla sfiducia storica che le classi dirette della Penisola nutrivano nei confronti delle classi dirigenti. Gli italiani, insomma, guardavano con simpatia a Bruxelles non tanto per amore verso l’Europa, quanto piuttosto per ostilità nei confronti di Roma: spostare il potere dalla capitale nazionale a quella continentale era considerato l’unico modo possibile per dare infine al Paese un governo efficiente, onesto, responsabile, attento alle esigenze dei cittadini. È ben possibile che l’entusiasmo in fin dei conti spensierato col quale nel 1992-1993 l’Italia s’è sbarazzata dei partiti di governo sia stato generato anche dalla convinzione che con la firma del trattato di Maastricht (febbraio 1992) Bruxelles avrebbe ormai preso il controllo, e della classe politica nazionale non ci sarebbe più stato alcun bisogno.

Questo è stato, dunque, il doppio movimento: la classe dirigente ha cercato di utilizzare l’Europa per rieducare la classe diretta in virtù del vincolo esterno; la classe diretta per sbarazzarsi della classe dirigente nazionale sostituendola con quella europea. Ma i due corni del doppio movimento, dicevamo, hanno fallito entrambi, e per ragioni che hanno a che vedere sia con l’Italia sia con l’Europa. La Penisola, innanzitutto, s’è dimostrata refrattaria alla pedagogia continentale. Com’era del resto largamente prevedibile: il Paese è sempre stato eccentrico e complesso, s’illudeva chi sperava che centocinquant’anni di vita pubblica caotica, rissosa, segmentata e polarizzata potessero ripiegarsi con ordine, d’incanto, nei cassetti cartesiani del vincolo esterno. A quarant’anni dall’ingresso dell’Italia nel sistema monetario europeo e a ventisette dalla firma del trattato di Maastricht, così, non soltanto il problema di come rendere compatibile la democrazia italiana con le regole europee non è stato risolto - ma, al contrario, con le elezioni del marzo 2018 si è fatto grave come non mai.

In secondo luogo l’Europa - come ci ha insegnato magistralmente quasi trent’anni fa Alan Milward - è sempre stata e continua a essere in larga misura, sebbene non esclusivamente, un’arena entro la quale i diversi Paesi badano soprattutto a tutelare i propri interessi nazionali. Non un’entità unitaria, insomma, ma un luogo di negoziati, conflitti e compromessi fra entità statuali diverse e assai spesso divergenti. Questo ha reso il disegno della classe dirigente italiana ancora più contraddittorio di quanto già non fosse. L’interesse nazionale, nell’interpretazione che essa ne dava, consisteva nel sottostare al vincolo europeo, così da poterlo utilizzare per rieducare la Penisola; quel vincolo europeo, però, era il frutto di un negoziato fra Paesi che difendevano ciascuno il proprio interesse nazionale; e in quel negoziato l’Italia rischiava di mettersi fin dall’inizio, volontariamente, nella posizione del vaso di coccio, perché uno dei suoi obiettivi era proprio quello di farsi stritolare - a fini educativi - dai vasi di ferro.

Nelle classi dirette è venuta così montando sempre di più l’ostilità nei confronti di una classe dirigente che sembrava pensasse a dar l’Europa in testa al Paese ben più che a difendere il Paese in Europa. Per parte loro, però, quelle classi dirette hanno continuato a privare di legittimità, stabilità e potere le classi dirigenti. L’idea - come detto - era che un autentico e virtuoso governo europeo avrebbe infine consentito loro di sbarazzarsi del vizioso governo italico. Solo, il governo europeo non c’era: c’era, appunto, un’arena nella quale si scontravano gli interessi nazionali, e nella quale la classe dirigente italiana entrava indebolita e delegittimata in partenza da quello stesso Paese che le chiedeva di difenderlo nelle trattative.

Questo ragionamento (stando al quale non ha ragione nessuno, anche se tutti hanno delle ragioni) consente di capire almeno in parte non soltanto perché i partiti euroscettici vincano le elezioni in un Paese la cui maggioranza si dichiara ancora europeista, ma anche per quale motivo nell’ultimo decennio il populismo, ossia il frutto della crisi verticale nel rapporto fra classi dirigenti tradizionali e classi dirette, si sia presentato così strettamente intrecciato con l’euroscetticismo: perché l’Europa, anche a motivo dei suoi limiti, è stata tirata dentro a una guerra civile italo-italiana. Questo ragionamento consente infine di giungere a un’altra conclusione: gli italiani, diretti e dirigenti, sono condannati a vivere con se stessi. I dirigenti, se vogliono educare i diretti, devono farlo in prima persona, convincendoli e rendendosi credibili. E i diretti devono sopportare gli inevitabili difetti dei dirigenti. La de-italianizzazione dell’Italia non è un’opzione praticabile: né dall’Europa, né da nessun altro.