L'impronta delle logge sull'omicidio del magistrato che resta l’enigma per eccellenza della stagione delle stragi mafiose

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Grembiuli e cappucci, logge e salotti. Nella storia dell’omicidio Scopelliti, la massoneria ha lasciato la sua impronta. Sono gli anni Novanta. Negli ambienti della Capitale che il magistrato calabrese frequentava si gestisce la transizione e si cercano nuovi interlocutori.
«C’è un sistema di potere che si deve riorganizzare in fretta, per questo affiora. Il problema», dice chi sta indagando in questa direzione «è recuperare elementi di quasi 30 anni fa. Ma è necessario, perché è tutto ancora in piedi». La chiave, spiega, sta in quei salotti che servono da alibi per incontri che devono restare discreti e da occasione per agganciare qualcuno.

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È il mondo dei massoni che non figurano nelle liste ufficiali e sono sfuggiti al lavoro della commissione parlamentare antimafia nella scorsa legislatura, nonostante i sequestri degli elenchi ordinati dal presidente Rosy Bindi. I nomi dei muratori calabresi e siciliani sono però serviti alle procure per lavorare per un confronto con gli elementi portati da “fratelli” che ai magistrati stanno spiegando come la legge Anselmi sia stata aggirata.
A chi stava nelle obbedienze ufficiali è bastato mettersi “in sonno” per sparire da tutti gli elenchi e rimanere solo “all’orecchio” del Gran Maestro, terminale di collegamento con la fratellanza ufficiale. I massoni in sonno, secondo la Dda reggina, hanno goduto del privilegio di non pagare le quote, di non partecipare ai rituali, se non quelli aperti ai profani, e della possibilità di non farsi riconoscere dagli altri muratori.
Negli anni poi, le strutture sono state nascoste dietro ordini cavallereschi vaticani o obbedienze con base a San Marino.
Il personaggio
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È così che dopo lo scandalo P2 vivono le logge coperte che Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto di Reggio Calabria e consulente della nuova commissione Antimafia presieduta da Nicola Morra, sta individuando. Ed è lì che uomini di potere, pubblico, privato e criminale, mettono insieme il proprio capitale sociale. Due nomi ci sono già: Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Li hanno fatti i pentiti, li hanno confermati i “fratelli”. Avvocati, entrambi condannati in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, De Stefano e Romeo hanno il pallino della politica e la predilezione per l’eversione nera a dispetto della militanza ufficiale (Dc e Psdi rispettivamente). Per i magistrati sono al vertice della direzione strategica della ‘ndrangheta. Iniziati negli anni Settanta in una superloggia con ambizioni golpiste, ufficialmente non esistono, ma i documenti trovati nel quartier generale di Romeo confermano che quel mondo non lo hanno mai lasciato.
Cronologia
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Sarebbero i componenti in quota ‘ndrangheta di gruppi di potere dalle anime diverse che la “fratellanza” tiene insieme. È lo stesso mondo frequentato dal pentito Cosimo Virgiglio tra la Calabria, Roma, il Vaticano e San Marino e attorno a cui gravitano salotti come quello dei fratelli Giuseppe, Raffaele e Massimo Pizza, sede sociale di uno Stato parallelo, in grado di intervenire negli affari interni, esteri, economici e sociali.

È il sistema che si è dovuto mettere in moto in fretta per garantire la latitanza di Marcello Dell’Utri e Amedeo Matacena, condannati entrambi come rappresentanti delle mafie nel mondo della politica.