Un killer seriale con decine di assassini in curriculum ha portato i magistrati sulle tracce dell'arma che, secondo lui, ha ucciso il giudice calabrese

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Un sicario spietato. Un viveur. Un pentito importante, ma capace di far saltare il programma di protezione per tornare alle rapine. Nel corso della sua vita, Maurizio Avola, il collaboratore che ha dato nuove gambe alle indagini sull’omicidio Scopelliti, è stato molte cose. Tante sono state ricostruite, altrettante le ha raccontate lui stesso, dentro e fuori dalle aule di giustizia.

Autore reoconfesso di più di 80 omicidi, in grado di freddare senza esitazione, né rimpianti, giornalisti, boss, e persino il suo migliore amico, negli anni di piombo catanesi, a lui il boss Nitto Santapaola affidava le più delicate missioni di morte con la certezza che non avrebbe né sbagliato, né parlato. Perché uccidere gli piaceva. «Le persone che mi passavano di fianco per strada mi sembravano così piccole. Non lo sapevano, mentre io ero il padrone delle loro vite» ha detto più volte in udienza.

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Collaboratore dal ‘94, non ha mai esitato a toccare argomenti sensibili. Ha fatto il nome di Cesare Previti e Marcello Dell’Utri come uomini al servizio delle mafie ed è stato il primo a mettere in relazione la stagione degli attentati continentali con Silvio Berlusconi e Forza Italia. Si è autoaccusato di omicidi eccellenti, ha indicato mandanti ed esecutori di attentati che hanno fatto rumore e di altri solo progettati, ha rivelato la riunione di Enna servita per progettare quelle leghe regionali che avrebbero dovuto regalare ai clan una nazione. 
Maurizio Avola

Per gli altri pentiti è uno che sa, perché aveva il ruolo e il rango per essere informato. Ne parlano in tanti e ne ricordano la ferocia. Nessuno si è mai azzardato a definirlo un uomo dominato dalla paura. Eppure, per l’ex sicario dagli occhi di ghiaccio diventato collaboratore di giustizia, la vita numero tre, è iniziata con un’implicita richiesta di aiuto. 

«Temevo e temo molto i circuiti massonici a cui Matteo Messina Denaro e la sua famiglia sono legati. Sono molto potenti e hanno al servizio numerosi esponenti delle istituzioni» dice ai magistrati per spiegare come mai sulla primula nera di Castelvetrano non abbia mai proferito verbo. «Sono queste le persone che mi fanno paura, non il mafioso o il delinquente. Persone che portano le notizie, che hanno rapporti con i servizi centrali, che possono individuare un soggetto anche sotto protezione perché ci sono uomini dello Stato che fanno il doppio gioco». Per questo, ammette, lui ha scelto il silenzio su Messina Denaro e la sua rete come assicurazione sulla vita. Poi, dice, «ho deciso di non nascondere più nulla perché lo dovevo ai miei figli».

In realtà, ragiona chi sta vagliando le sue dichiarazioni, probabilmente ha capito che gli investigatori si stavano avvicinando e le indagini avrebbero finito per coinvolgerlo, perchè la confidenza affidata ad un compagno di cella era arrivata all’orecchio dei magistrati. Lo ha realizzato quando il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, gli si è seduto davanti e gli ha rivolto una sola domanda: «cosa mi sa dire dell’omicidio del giudice Scopelliti?». Avola ha capito che sulla primula rossa di Cosa Nostra non avrebbe potuto più tacere. E ha iniziato a parlare.  
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Ha raccontato di quell’estate catanese del ’91, iniziata fra spiagge, locali e discoteche e interrotta da una richiesta arrivata direttamente da Aldo Ercolano, nipote del boss Nitto e numero 2 della famiglia Santapaola. «Mi dice che bisognava fare un omicidio d’urgenza e che dovevo esserci io». La vittima designata era il giudice Scopelliti. Un bersaglio eccellente per il quale è stato messo insieme un commando eccellente. «Io dovevo portare la motocicletta a Vincenzo Salvatore Santapaola» rivela Avola, che poi aggiunge che in Calabria «c’era anche Messina Denaro, che ha commesso con me materialmente l’omicidio». 

Dalla Sicilia, partono il killer più affidabile dei catanesi, il figlio del boss che nell’89 aveva detto no ai corleonesi che progettavano di uccidere Falcone a Catania e il capo di uno dei due gruppi di riservati alle dirette dipendenze di Totò Riina. Il tempo era poco, toccava organizzarsi in fretta. La morte del giudice era stata decisa da tempo, «ad aprile, maggio» durante una riunione a Castelvetrano «a cui avevano partecipato - racconta Avola -Aldo Ercolano, Matteo Messina Denaro, suo padre e altre persone di cui non mi hanno fatto il nome». Ma condizioni e occasione per l’omicidio sono maturate solo ad agosto «perché Scopelliti se ne stava andando da Reggio per tornare a Roma e era necessario ucciderlo nella località in cui si trovava in Calabria». Perché? «Nella capitale non si poteva fare perché non volevano un omicidio eccellente là, anche quello di Falcone – racconta il collaboratore -  è saltato per lo stesso motivo». 

Indicazioni di Salvo Lima, capo della corrente andreottiana in Sicilia, intimo del “Divo” Giulio e referente di Cosa Nostra. «Lui era un uomo nostro. D’Agata mi ha detto che è stato lui a dare notizie sulle mosse di Scopelliti. Al giudice, lo ha rovinato Falcone. Ercolano mi disse che Falcone aveva continuato a interessarsi al maxi, per i mafiosi faceva di più di quello che avrebbe dovuto fare. Si era incontrato con il dottore Scopelliti, gli aveva parlato, lo aveva indicato per la Cassazione». 
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Altro ad Avola non hanno detto. Ma a lui forse è bastato per capire che quello non era un omicidio come gli altri, che il fucile utilizzato non andava distrutto, ma conservato in un luogo sicuro. Per sicurezza. Lo ha fatto ritrovare agli investigatori della Mobile di Reggio Calabria nell’agosto scorso, sepolto in un fondo agricolo del catanese, accuratamente avvolto in una felpa e conservato in una borsa insieme ai proiettili. 

Dopo anni sotto terra, il calcio era in pezzi e la stoffa quasi fusa alla canna, ma i periti sono fiduciosi. Qualcosa si può recuperare. Gli accertamenti sono in corso e pesano come una spada di Damocle sui 18 indagati del terzo fascicolo sull’omicidio Scopelliti. Quello che potrebbe finalmente restituire verità ad un omicidio che da 30 anni non ha colpevoli, né spiegazione.