Abbattuta dopo il 1989, la cortina di ferro a Nordest ora rischia di ritornare per sbarrare la strada ai migranti. Ma sul confine italiani e sloveni, insieme, dicono no alla proposta leghista

Il governatore leghista Massimiliano Fedriga con Matteo Salvini
Dalla statale 55 una freccia bianca e rossa, di quelle che in montagna guidano i turisti, invita a tuffarsi in un tunnel di alberi e ombre. Ancora quarant’anni fa avremmo sbattuto contro la Cortina di ferro: quella distesa metallica di reti, blindati militari e colpo in canna che dalla fine della Seconda guerra mondiale a tutta la Guerra fredda divideva l’Europa. Oggi il sentiero Abramo Schmid percorso allora dalle pattuglie armate è una pista ciclabile. L’unica impronta della storia la leggi nei cartelli: di qua il paese si scrive Gabria, di là Gabrje, di qua la provincia è Gorizia, di là Nova Gorica. Ma in mezzo nulla sbarra più il passaggio. Il confine rimane soltanto nelle pratiche burocratiche. Niko Lutman, 57 anni, designer di arredamento, abita una delle prime tre case slovene dopo il bosco. Saluta con un sorriso, poi chiede: «Secondo lei davvero gli italiani rimetteranno il filo spinato?».

La proposta del triestino Massimiliano Fedriga, presidente leghista del Friuli Venezia Giulia, è un flop: non una sola voce ragionevole lungo i due versanti della frontiera dall’Adriatico all’Isonzo, perfino tra i simpatizzanti locali della Lega, è favorevole alla recinzione contro gli immigrati in arrivo dalla rotta balcanica. Ma, ugualmente, preoccupano le parole rilanciate in questi giorni dal vicepremier Matteo Salvini: muro, confine, sigillare, blindare. E fanno paura gli applausi pochi giorni fa al suo arrivo in piazza a Trieste.

I mal di pancia del nazionalismo italiano qui hanno sempre portato dolore e ancora oggi spaventano la memoria. Sulle alture carsiche del Vallone, dalla casa di Niko Lutman a Gabrje fino a Doberdò, un secolo fa crescevano cespugli di pomodori. Non perché qualcuno li coltivasse: germogliavano dalle viscere decomposte dei soldati della Grande guerra, che ne avevano mangiati crudi poco prima di morire.
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Il Novecento in queste terre ha il suo unico museo a cielo aperto. Trincee, ossari, lapidi, picchetti, torrette, gallerie, reperti ancora da scavare. Da queste strade sono transitati l’irredentismo italiano, la dominazione fascista, l’occupazione nazista, i massacri stalinisti, le foibe jugoslave, l’esodo dall’Istria e il rancore di chi non può dimenticare. L’allargamento dell’Unione Europea è, qui come altrove, una garanzia per la pace: la necessità praticata tutti i giorni di vivere su una terra riunificata che ha il suo capoluogo a Gorizia-Nova Gorica, città indivisibile di sessantaseimila abitanti.

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I numeri danno la vera dimensione. I richiedenti asilo arrivati in Italia via Bosnia-Croazia-Slovenia, soprattutto pakistani e afghani, da gennaio a giugno sono 1.080 (953 a Trieste, 127 a Gorizia), di cui 143 già riportati al di là del confine sloveno. L’anno scorso erano 1.561, di cui 343 “riammessi” in Slovenia. A voler essere allarmisti è un aumento di quasi il duecento per cento rispetto ai 361 stranieri senza documenti entrati da Est nei primi sei mesi del 2018. Le polizie italiana e slovena calcolano che nei campi di accoglienza a Bihac, in Bosnia vicino al confine con la Croazia, siano almeno diecimila le persone in attesa di proseguire il viaggio verso l’Unione Europea. Sintomo che la Turchia ha smesso di contenere il flusso in arrivo lungo la Via della seta. L’Ungheria ha blindato con il filo spinato la rotta balcanica al confine con la Serbia, che non fa parte dell’Unione. Montagne abbastanza alte proteggono l’Austria. Quindi il timore è che rimanga una sola uscita: la fascia di sentieri che scendono nei paesi intorno a Trieste e Gorizia, per venire a richiedere asilo alle autorità italiane e, se possibile, raggiungere poi le comunità di connazionali in Francia e nel Regno Unito.

Sono comunque 1.080 persone in sei mesi, contro i 2.678 ingressi che il ministero dell’Interno registra nello stesso periodo lungo i confini marittimi meridionali. Vent’anni fa andava molto peggio, anche se la Slovenia non era in area Schengen, i valichi erano presidiati giorno e notte e piazza Transalpina a Gorizia era ancora tagliata dalla cancellata che segnava la divisione del 1947. «Si arriva a cinquanta, sessantamila anime l’anno», scrive Paolo Rumiz il 18 novembre 2000 su Repubblica. Immaginate cosa accadrebbe oggi al sindaco di Berlino se proponesse di rialzare il muro, per fermare un migliaio di intrusi sorpresi senza documento. Con le stesse cifre, però, il delirio sovranista italiano ha reso Fedriga una star.

Il buon senso lo dimostra chi tutti i giorni fa i conti con il suo lavoro. Da inizio luglio agenti italiani e sloveni pattugliano insieme la zona di frontiera su una lunghezza di trenta chilometri e una profondità di dieci. L’accordo prevede che gli stranieri sorpresi al di là del confine facciano richiesta di asilo in Slovenia, mentre l’Italia si fa carico dei migranti rintracciati al di qua. La diplomazia personale funziona meglio della politica. E già si studiano pattuglie miste Italia-Slovenia a ridosso della Croazia, ventottesimo Stato dell’Unione ma non ancora in area Schengen. Sul bordo orientale la polizia schiera alcuni dei suoi funzionari più preparati, come Giuseppe Colasanto, dirigente della frontiera a Trieste con una lunga esperienza in Libia e in Kosovo, e il questore di Gorizia, Paolo Gropuzzo, già responsabile delle frontiere di tutto il Nord Est.
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Quello che la Regione friulana propone su un confine interno dell’Unione, la Slovenia l’ha già fatto all’esterno. Convinto di ridurre gli ingressi irregolari dalla Croazia, il governo di Lubiana ha steso i primi chilometri di filo spinato. Il risultato l’ha rivelato lunedì 8 luglio il ministro Boštjan Poklukar: gli attraversamenti illegali sono raddoppiati. Sorridono alla notizia appena letta su Facebook alcuni abitanti di Socerb, seduti su un muretto della piazzetta centrale che dal Carso sloveno si affaccia su Trieste. Alle nostre spalle il tramonto illumina la lapide decorata con la stella rossa e i nomi di cinque caduti del 1945. Le incredibili parole di Salvini e Fedriga sono risuonate quassù come una sassata alle finestre. «I problemi vanno affrontati all’origine nei loro Paesi», commenta una giovane mamma slovena: «Ha visto i nostri boschi? La rete non serve, entrerebbero altrove. Sarebbe un ritorno al passato. Noi lavoriamo giù a Trieste. I triestini salgono a comprare casa da noi. Non vogliamo più divisioni, abbiamo già dato».

È quasi buio e gli ultimi escursionisti scendono in fretta dai sentieri della Val Rosandra. La splendida riserva naturale a cavallo del confine è la via più sicura per arrivare a Trieste senza cadere in qualche dirupo. I temporali della notte hanno illuminato di lampi un altro genere di marcia, inseguita dagli scrosci e dai tuoni buttati giù dal monte Carso. La fila silenziosa si è fermata in riva al torrente prima di entrare nel paese di Bagnoli Superiore. Di tutti loro restano per terra uno zainetto vuoto, qualche indumento, due paia di scarpe fradicie e un mosaico di impronte tutt’intorno.

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12/7/2019
L’altra porta dell’Italia è la Parenzana: l’ex ferrovia austro-ungarica che collegava Trieste a Parenzo è oggi una pista ciclabile che da Muggia attraversa liberamente i territori di Italia, Slovenia e Croazia. Il presidente Fedriga con qualche matassa di filo spinato vorrebbe insomma impedire che i turisti di mezza Europa salgano quassù e portino euro alla sua regione. Ma dovrebbe sigillare perfino il Sentiero dell’amicizia, che si arrampica alla Caverna degli orsi e al Vallo del Castelliere, già passaggio umano ai tempi dell’Età del bronzo. Un percorso riaperto dai Comuni di San Dorligo e di Hrpelje-Kozina «quale espressione di convivenza, amicizia e collaborazione», spiega il cartello bilingue. Parole che da queste parti valgono davvero quello che affermano.
«La smaterializzazione del confine è stata la liberazione da un incubo», ricorda Raoul Pupo, professore di Storia contemporanea all’Università di Trieste e tra i massimi studiosi dell’esodo istriano e dei massacri nelle foibe: «Adesso tutto questo è superato. Città e campagna stanno recuperando il loro rapporto di simbiosi. Si comincia a parlare di servizi comuni. Italiani e sloveni dell’area giuliana, che sono tradizionalmente grandi escursionisti, si incontrano a ogni passo del Carso goriziano e triestino, attraversando con gioia le vecchie linee di pattugliamento. Dovremmo rinunciare a questo per paura di alcuni poveri disgraziati o, peggio ancora, per alimentare le paranoie di chi specula sulle insicurezze generate dalla crisi degli anni passati? Ma neanche per idea».

Il Memorandum di Londra, che nel 1954 ha stabilito i confini tra l’Italia e l’allora Jugoslavia, ha tolto a Muggia metà delle terre di competenza del Comune: «Dal 2007, con l’entrata della Slovenia nell’area Schengen, il nostro territorio è tornato a considerarsi unitario», racconta Laura Marzi, sindaco della cittadina più meridionale del Friuli Venezia Giulia, «e si sono intensificati i rapporti personali e istituzionali che prima non erano possibili o erano, quanto meno, difficoltosi. Oggi, proprio per questa unitarietà, c’è un flusso continuo di merci e pendolari che dall’Italia vanno in Slovenia e viceversa, contribuendo allo sviluppo economico del territorio che, appunto, va ben al di là degli Stati. La reintroduzione di barriere confinarie avrebbe ripercussioni sulla collaborazione tra enti e istituzioni, per ovvi motivi, facendoci così rapidamente tornare a un rischioso isolamento».

Questo spirito, ostacolato per quasi un secolo dalla costruzione del confine dopo lo smembramento dell’Impero austro-ungarico, è stato completamente liberato con l’allargamento a Est dell’Unione Europea. E dal 1991 è ben rappresentato nelle sue forme culturali e artistiche dal Mittelfest che Cividale del Friuli ospita proprio in questi giorni. Esiste una nuova generazione mitteleuropea? «Penso a un ragazzino di 11 anni, figlio di una colta signora di Pulfero», risponde Federico Rossi, presidente del Mittelfest: «Dopo aver frequentato la scuola bilingue sloveno-italiana di San Pietro al Natisone, scuola di eccellenza istituita tempo fa da un gruppo di genitori e insegnanti, ora frequenta le medie a Klagenfurt in Carinzia. Con la sua conoscenza di sloveno, italiano, friulano, tedesco e inglese, è un ragazzo europeo cresciuto con le sue radici, che però non sa cosa sono e non può capire i muri e le barriere di Salvini». E non sono soltanto muri fisici.

Carlo Brumat, 69 anni, ha passato la vita ad attraversare la frontiera. Azienda agricola in Italia, le vigne di famiglia in Jugoslavia. Il suo agriturismo “Da Bepon” alle Casermette di Gorizia ha un cancello che non si apre dal 1947. Sarebbe inutile, perché dà ancora sulla rete della Cortina di ferro che adesso serve da recinzione alla proprietà. «Il progetto di fare un’entrata dalla Slovenia ce l’ho», rivela Brumat, che oggi produce vini pregiati e la Rosa di Gorizia, il piccolo radicchio che si coltiva qui. Sarebbe la prima locanda transfrontaliera. Lui sorride: «Qui non c’è mai stato rancore. Ci siamo sempre aiutati, anche nei tempi più duri. I miei amici di là coltivavano la mia vigna, io di qua la loro. Portavamo stoffe e caffè nascosti nel fieno, loro ricambiavano con carne e prosciutto. Ci siamo sempre considerati contadini della stessa terra. No, richiudere i confini oggi significa ricominciare a ragionare come in tempo di guerra. Le reti non fermano nessuno. Ci vuole buon senso e lavoro. Vuol vedere il cancello? Andiamo che lo riapro, così magari tiene lontani i brutti pensieri». Il ferro è arrugginito. Ma le cerniere nemmeno cigolano.

Qualche chilometro più a Nord la villa che fu della contessa Lyduska Hornik rivela l’occhio benevolo con cui il generale britannico William Duthie Morgan tracciò la linea che ancora porta il suo nome: un dietrofront contorto per mantenere in Italia la ricca ereditiera. Così come un po’ più a Sud della locanda di Carlo Brumat, la linea Morgan fa con la casa dove oggi abita Tedi Devetak, 64 anni, famoso allenatore di basket. Ma lo fa nel senso inverso: «Finita la guerra mia nonna Milia ha lasciato Savogna in Italia per trasferirsi in Jugoslavia», racconta il nipote: «Così ha occupato la prima casa sul confine lasciata libera da una famiglia italiana che se n’era andata per le ragioni opposte. Gli inglesi le offrirono un’altra sistemazione. Ma lei da lì non si voleva spostare». Da allora il confine, dritto ovunque come un righello, tra i picchetti 57/32 e 57/35 passa intorno alla casa di nonna Milia. «Oggi siamo un’unica città, una sola comunità», conferma Tedi Devetak, figlio di un partigiano che ha combattuto contro fascisti e nazisti, «parlare ancora di reti sarebbe un passo indietro».

Lo pensa anche Ivan Zizmond, 65 anni, camionista, davanti a un aperitivo al bar della stazione in piazza Transalpina, il simbolico “Checkpoint Charlie” tra Nova Gorica e Gorizia: «Vedere in tv la manifestazione per Salvini mi ha fatto paura. A me quello che succede a Trieste fa sempre paura». Gli danno ragione Sara Špacapan, 23 anni, studentessa universitaria e cameriera per pagarsi gli studi e la sua collega Anja Fabijan, 33: «Parlare di reti risveglia brutti ricordi».

Il decreto sicurezza ha intanto innalzato i muri culturali tagliando i corsi di italiano anche al Nazareno, il centro di accoglienza di Gorizia. Restano le lezioni gratis dei volontari. Come Luigi Casalboni, 63 anni, manager in pensione, e il pittore Renato Elia, 70. Nei loro incontri mattutini formano pakistani e afghani. «Per integrare questi ragazzi ci vorrebbero due anni di servizio civile obbligatorio in cambio del permesso di soggiorno», afferma convinto Renato Elia: «Chi è cresciuto sottomesso all’indottrinamento politico o religioso comprende con fatica la nostra società. Noi cerchiamo di insegnare i principi della cultura democratica. Dobbiamo far comprendere le differenze tra dittatura e libertà, tra l’obbedienza cieca e il dubbio». Praticamente, in poche ore di lezione, un salto di secoli di storia, scienza, filosofia: «Ma se ci si prova», assicurano i due insegnanti volontari, «anche questo confine, il più impervio, può essere abbattuto».