«La carne e il dolore sulla Mare Jonio: ho visto quello che a terra non sanno»
Una scrittrice racconta i giorni del salvataggio e del blocco. «Quando salgono sulla nave, sembrano dei miracoli ambulanti. Devi toccarli per capire che sono veri» (Foto di Francesco Bellina)
Mi sono sempre chiesta cosa si provi durante un “rescue”. Adesso lo so. All’inizio è una gioia un po’ incredula, come davanti a un evento sovrannaturale. La notte del 28 agosto ho dormito per terra, nel container dei migranti, su un letto di salvagenti, insieme alle soccorritrici. Mi hanno svegliata all’alba e mi hanno detto che il radar aveva individuato qualcosa, forse un target. Bisognava rimettere tutto a posto e svuotare in fretta il ponte di poppa. Non so cosa ho provato, non avevo il tempo per chiedermelo. Sono corsa in plancia, sul ponte di comando, tutti avevano il binocolo in mano. Il gommone si vedeva a occhio nudo. Ma sembrava vuoto. Un altro relitto da recuperare? Era già passata la cosiddetta Guardia costiera libica? Poi qualcuno ha detto: «Si vedono delle teste!». Ci passavamo i binocoli di mano in mano. «Sono tantissimi», ha gridato un altro. E la nave si è fermata per calare i “rhib”, i battelli gonfiabili.
Mi sono sempre chiesta cosa provino i migranti davanti a una nave umanitaria. Adesso lo so. Me lo ha raccontato M. durante una notte insonne, alcuni giorni dopo. Non era nemmeno il mio turno, semplicemente nessuno dei due riusciva più a dormire. E quando su una nave non si riesce a dormire, si guarda il mare nero e si parla. «Voi pensavate che il gommone fosse vuoto perché io avevo detto a tutti di abbassare la testa e di fare silenzio», mi ha spiegato. «Eravamo convinti che fosse la Guardia costiera libica venuta a riprenderci. Nemmeno i bambini fiatavano. Anche se avevano pianto fino a un minuto prima».
Intanto noi: in fibrillazione. Le gru calavano i rhib, le ragazze e i ragazzi si infilavano veloci i salvagenti e il casco. Io li guardavo. Pensavo a tutte le loro esercitazioni, a tutta la fatica che avevano fatto, con il rigore necessario, per imparare le tecniche di soccorso, per essere all’altezza di quel momento. Erano molto concentrati mentre si preparavano ad assumersi una responsabilità infinitamente più grande di loro e della loro età, destinati a essere diversi dai loro coetanei, che non hanno idea di cosa sia questo mare inaccessibile al mondo, anche con il pensiero.
Intanto loro, sul gommone: in apnea, chinati. La prima volta che avevano pensato che fosse finita, era stata a poche miglia dalla costa, quando erano cadute in acqua delle persone. Ho scoperto questa tragedia mentre accompagnavo le donne in bagno, subito dopo l’imbarco. Mentre facevano la fila davanti al gabinetto, mi afferravano per un braccio: «Sono morte sei persone», dicevano, «sono cadute in acqua, non le abbiamo più trovate». E piangevano. Appena si sono calmate, sono corsa in plancia per avvertire Luca Casarini, il capo missione. Guardate che sono morti in sei durante la traversata. E subito sono tornata giù, perché il mio posto era là, in coperta di poppa, con loro. Una mattina li ho trovati più angosciati del solito e mi hanno spiegato che durante la notte si erano confrontati e avevano contato insieme i morti. Nove, non sei. Questo incidente non dava pace a nessuno dei superstiti. Me ne parlavano soprattutto di notte, a turno. Aspettavano che fossi sola e che avessi smesso di ascoltare il precedente. Avevano un bisogno disperato di sfogarsi. Ero una delle poche persone a bordo che parlava francese e sentivano l’urgenza di aprirsi con chi capiva la lingua. «Nel buio gridavano au secours», mi dicevano. Tanti di loro erano caduti in acqua per colpa di quell’onda, ma erano riusciti a restare aggrappati, a una corda o a una mano. Durante le visite mediche, a cui assistevo per tradurre, ho scoperto che molti avevano ancora acqua nei polmoni. Un ragazzo aveva male al petto: lo aveva colpito il piede di un uomo che stava affogando, se lo sentiva ancora addosso.
Uscivano da un traversata terribile. Due giorni e due notti in mare. Finito il carburante, finito il cibo, finita l’acqua. «Piangevano tutti sul gommone, soprattutto i bambini», mi raccontava. «Io continuavo a ripetere a mia moglie che ce l’avremmo fatta, ma non lo pensavo. Mi preparavo a morire così. Poi abbiamo visto comparire dal nulla una nave. Ecco, sono venuti a riprenderci, pensavamo, ci porteranno di nuovo in Libia». Sarebbe stato meglio morire nel Mediterraneo sterminato, come i primi che se ne erano andati. Invece quella nave eravamo noi. «L’ho capito quando ho visto i gommoni arancioni, i libici non hanno gommoni arancioni. L’ho detto subito agli altri». E di colpo le teste si sono sollevate.
Ho chiesto a M. cosa si prova in un momento del genere. «Una gioia che richiede tempo per essere digerita», mi ha risposto. Anche la nostra era una gioia così. Li vedi apparire in mezzo al nulla e poi salire sulla nave in carne e ossa e sei pieno di stupore. Ti sembrano dei miracoli ambulanti. Hai bisogno di toccarli per essere certo di non vaneggiare, pazienza per la scabbia o il gasolio di cui sono imbevuti. È talmente reciproco lo stupore, e primordiale, che lo sentono anche i bambini. Ti saltano in braccio e si aggrappano, come per accertarsi che tu sia vero. La sera avevamo un gran mal di schiena perché per tutto il giorno avevamo corso per il ponte con uno o due bambini al collo. Io li guardavo come si guardano dei fantasmi. E loro facevano uguale. Mi toccavano i capelli biondi. Ma davvero?
Gli adulti hanno bisogno di tempo per interiorizzare una gioia del genere, i bambini vanno oltre in fretta. Era impossibile tenerli calmi, correvano a sondare lo spazio nuovo, pericolosamente, le madri troppo esauste per trattenerli. La Mare Jonio era diventata un asilo ingovernabile. Li acchiappavamo al volo mentre la nave rollava, si arrampicavano ovunque. Cecilia Strada ha cominciato a distribuire dei giochi. Ma non erano abbastanza. Una bambina era rimasta senza. Per lei ho recuperato una scatola di pennarelli e ho avuto un’illuminazione. Forse l’unico modo per tenerli fermi era farli disegnare. Per un po’, ha funzionato. Disegnavano navi, loro che non avevano mai visto il mare, e lo hanno scoperto così. Uno solo non partecipava. L’ho preso in braccio e mi sono accorta che aveva una ferita aperta sulla spalla. Poi ho guardato meglio: gli mancavano due dita della mano. Ho chiesto alla madre cosa gli era successo. Mi ha raccontato che gli avevano sparato addosso quando aveva due anni. Adesso ne aveva sei e non riusciva a usare i pennarelli. Sono corsa ad avvertire in plancia, di nuovo. Che altro potevo fare.
Poi sono cominciate le visite mediche. Io stavo chiusa nell’ambulatorio con Donatella Albini, il medico di bordo. Tenevo la mano a donne spaventate che divaricavano le gambe e chiudevano gli occhi, perché non erano mai state visitate. Per tranquillizzarle, le accarezzavo. Soprattutto quando rispondevano alle domande della dottoressa. Non è facile dire di essere state violentate. Parlavano sottovoce, con l’occhio spento o vivo di rabbia all’improvviso. Mentre io, impassibile, traducevo. Che altro potevo fare.
Non è stato più semplice con gli uomini, al fianco di Stefano Caselli, infermiere e soccorritore. Non ce n’era uno che non fosse stato torturato in prigione. Ci mostravano la loro storia sulla pelle: ferite da coltello, ustioni per acqua bollente, lividi da calcio di fucile, segni di frusta sulla schiena, bruciature con la corrente elettrica. Le vittime di tortura sono delicate, avevamo paura di scoperchiare un vaso di Pandora, sono traumi che andrebbero tirati fuori a terra, non in mare. Ma loro avevano un’urgenza disperata di parlare, non aspettavano neanche di entrare nell’ambulatorio. Mi prendevano la mano e me la facevano appoggiare sulla ferita, come per sentirsi meno soli con quella storia sul corpo.
Avevo davanti persone che non erano abituate a sentire parole come per favore, grazie, come stai. Sono parole che in Libia non pronuncia nessuno. Da questa base, abbiamo costruito un rapporto stupendo. Ho passato notti ad ascoltare donne devastate. Volevano stare abbracciate e piangere addosso a qualcuno, tirare fuori tutto. Alla fine riuscivo anche a farle ridere. Era bellissimo vederle ridere. Come tutti gli esseri umani. Anche noi ridevamo, ogni tanto. Quando passi tutto il giorno ad ascoltare racconti di schiavitù, lavori forzati, torture, violenze sessuali, bombardamenti (in tanti venivano da Tajoura, dove avevano perso amici e fratelli) hai bisogno di compensare. I ragazzi di Mediterranea hanno vent’anni, ridono come solo i ventenni sanno fare. E io con loro. Ci bastava niente.
Se oggi qualcuno viene a dirmi con una smorfia ironica, dall’alto dei suoi pregiudizi, che la Mare Jonio è la nave dei centri sociali, so cosa rispondere. Sì, lo è. È anche dei centri sociali. Per fortuna. E questa è la sua forza. Le navi non si conducono solo dalla plancia. Si governano soprattutto dal basso e laggiù, su quel ponte di dannati, c’erano loro: Fulvia Conte, Daniela Gallié, Francesca Zanoni, Stefano Caselli, Mario Pozzan. La storia della Mare Jonio la stanno facendo i giovani. Dal salvataggio con i rhib fino allo sbarco: loro e sempre loro, che a vent’anni non hanno paura di prendersi la responsabilità della vita e della morte degli altri. Bruciando come candele, consapevoli, serissimi, impegnati in qualcosa di molto più grande di tutti noi. Senza manie di grandezza, però: va fatto e basta, quindi si fa.
E tutti gli altri, a terra, si sciacquino la bocca.