"Il sindacalista oggi deve ascoltare, studiare, scegliere le priorità. Senza rimpianti e lagne"
Mezzo secolo fa il sindacato seppe rinnovarsi ed essere protagonista. Ecco cosa deve fare oggi davanti alle grandi innovazioni per fronteggiare la disoccupazione portata dalle nuove tecnologie secondo il segretario dei metalmeccanici Fim Cisl
Celebreremo come merita lo Statuto dei lavoratori, lo abbiamo fatto per la terribile Strage di Piazza Fontana, ma è passato quasi in silenzio l’anniversario della vera rivoluzione sindacale, quella dell’autunno caldo del 1969 contro cui, peraltro, si muoveva quella terribile strategia eversiva che non riusci a fermare innovazioni legislative e contrattuali.
Quanto avvenne attorno alle fabbriche nella primavera sindacale del ’69 fu un vero processo di trasformazione sociale straordinario che per la sua forza e profondità continua a stupire a distanza di cinquant’anni e che va ricordato bene, senza lenti ideologiche. Molti, grazie al peso che hanno, tuttora, nel mondo della cultura i protagonisti di allora, sono abituati a ricordare quegli anni assegnandoli a un protagonismo dei movimenti studenteschi.
Nei primi anni Sessanta si arriva al culmine della più grande trasformazione che la nostra società abbia conosciuto. In seguito alla ricostruzione finanziata con gli aiuti del Piano Marshall, alla liberalizzazione degli scambi e alla partecipazione di un popolo deciso a rifare il proprio paese, l’economia italiana da autarchica diventa aperta, da prevalentemente agricola diventa industriale. Tra il 1948 e il 1958 il Pil è cresciuto del 5,7% annuo, tra il 1958 e il 1961 del 7,5%, grazie ad alta produttività, bassi salari e accesso ai prodotti di consumo di massa.
Lo sviluppo occupazionale è impetuoso, tanto che la disoccupazione, fino a pochi anni prima un problema grave, scende in modo inaspettato sotto la soglia, detta “frizionale”, del 3% nel 1962, segnando così in pratica il raggiungimento della piena occupazione. Tuttavia c’era ancora una scarsità di lavoro qualificato e una rigidità generale nel mercato del lavoro industriale del Nord, nonostante continui l’emigrazione dalle campagne settentrionali (Marche, Umbria, Veneto, Emilia-Romagna, Friuli) e dal Sud, e sia massiccio l’ingresso di giovani nelle fabbriche. Allora la migrazione, anche dal Nord Est verso il Nord Ovest del paese, mentre oggi l’asse dello sviluppo si è spostato verso Nord Est e Torino è stata riconosciuta come area di crisi.
Ma allora, industrializzazione e migrazioni interne diedero ai lavoratori una vera forza contrattuale: si intensificavano le rivendicazioni salariali e si apriva una vera e propria primavera sindacale, ideale, culturale e politica. Dal 1962 partì la prima conflittualità operaia.
Una congiunzione “astrale” di maestri nei posti chiave. Sullo sfondo, alcuni straordinari avvenimenti internazionali incoraggiarono la ricerca di assetti sociali più avanzati: papa Giovanni XXIII convoca il Concilio per l’aggiornamento della Chiesa e il suo impegno risulta decisivo per il mantenimento della pace mondiale; J. F. Kennedy viene eletto presidente degli Stati Uniti e porta avanti il programma della nuova frontiera, dei diritti umani, della pace, dello sviluppo; Nikita Chrušcëv tra il 1953 e il 1964 alla guida dell’Unione Sovietica, che, sicuramente responsabile dell’invasione dell’Ungheria, avvia, per primo, un processo di destalinizzazione, denunciandone i crimini; M.L. King afferma il sogno di una fraternità mondiale, che con le lotte non violente abbatte i muri della discriminazione razziale; gli orrori della guerra in Vietnam fanno prendere coscienza del valore e dei problemi della pace e della libera determinazione dei popoli. Non possiamo tralasciare figure nostrane, come don Lorenzo Milani, la sua Scuola popolare di Barbiana, e la forza delle sue parole.
Insomma, nella Chiesa, all’interno dei due blocchi che avevano caratterizzato la guerra fredda e nel nostro paese soffiava un vento nuovo che verrà raccolto e sospinto anche nelle fabbriche italiane. Lo stesso vento nuovo che soffia nel pontificato di Papa Francesco. Se invece proviamo a riempire quelle caselle con i vertici atttuali di Russia, Stati Uniti, eccetera, il quadro complessivo di oggi è completamente reazionario.
Intanto in Italia il primo governo di centro-sinistra diede al paese un’accelerazione sul sentiero della modernizzazione: basti pensare all’innalzamento dell’obbligo scolastico a 14 anni e alla legge sulla parità di accesso delle donne a tutti gli impieghi pubblici, compresa la magistratura.Una ventata di aria nuova investì dunque la società, ruppe vecchi schemi in tutti i campi.
Tutto partì in fabbrica: nel luglio 1960, con tre piattaforme di elaborazione diverse, le Federazioni nazionali dei metalmeccanici aprirono la vertenza dei 100.000 lavoratori del settore elettromeccanico, la prima significativa vertenza di contrattazione articolata. Fu una vertenza di svolta perché vide irrompere massicciamente sulla scena i giovani lavoratori, in un movimento di lotta che collegava le vecchie capitali industriali di Piemonte e Lombardia a quelle nuove, del Veneto, del Friuli-Venezia Giulia, e alle aree del Mezzogiorno, nonché il centro con la periferia.
Il sindacato, per la sua moderna cultura democratica, la sua azione e la sua affermazione nelle imprese e nella società, allargò la democrazia nel paese e gli spazi di cittadinanza dei lavoratori: la Costituzione entrò nelle fabbriche coi diritti civili e sindacali conquistati attraverso la contrattazione e l’introduzione dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Si completò per i lavoratori quel lungo processo di passaggio da sudditi a cittadini.
Il sindacato ottenne il pieno riconoscimento dei suoi diritti di “rappresentante” dei lavoratori. La democrazia industriale iniziò il suo cammino aprendo la strada alla conquista di una piena democrazia economica purtroppo tutt’oggi ancora lontana. Al netto della straordinaria notizia che porterà due rappresentanti dei lavoratori nel Cda di Fca-Psa.
Gli anni del rinnovamento del sindacato italiano Gli anni Sessanta aprirono, nel mondo sindacale, le nuove frontiere dell’autonomia, del pluralismo, della democrazia sostanziale nei luoghi di lavoro, fondate sulla partecipazione di base e la contrattazione. In precedenza, molti contratti nazionali di lavoro venivano rinnovati con enormi ritardi sulle scadenze con risultati modesti. Inoltre, la Confindustria era su posizioni assolutamente arretrate, forte e arrogante nei rapporti col sindacato e nel merito della contrattazione. Molte innovazioni furono in quella fase grazie alla nascita di Intersind nel 1958.
Si prepara la svolta. Il rinnovo del contratto dei metalmeccanici del 1959, coi suoi modesti risultati, registra il clima sindacale e i rapporti di forza di quel tempo. Siamo di fronte a una contrattazione povera, un forte autoritarismo e la pratica degli arbitrî nelle fabbriche in tema di gestione del personale e a un’intollerabile discriminazione tra operai e impiegati nei trattamenti di malattia, ferie, scatti d’anzianità, indennità di anzianità e salari. Queste condizioni rappresentano bene la situazione sindacale del primo decennio, ma è un decennio che sta per finire. Sono cresciute le forze per cambiare.
All’epoca le retribuzioni erano suddivise in 13 zone salariali (gruppi di province), 4 scaglioni di età per gli operai e 7 per gli impiegati, diversificati tra uomini e donne, e la scala mobile era differenziata in zona A e zona B, per età e sesso. Per il superamento delle “zone salariali” le organizzazioni sindacali lanciarono una vertenza nazionale sostenuta da scioperi e manifestazioni, ma anche da una diffusa mobilitazione a livello aziendale per chiedere la cancellazione di questo sistema salariale iniquo. Il 21 dicembre 1968 fu l’Intersind (le aziende a partecipazioni statali uscite da Confindustria) ad accettare l’eliminazione delle «gabbie» sia pure in modo graduale entro il 1971. Successivamente, dovette ricredersi anche Confindustria.
Già negli anni Cinquanta un grande segretario della Cgil come Giuseppe Di Vittorio presentava il Piano del lavoro come tentativo di rompere la gabbia in cui era costretta la lotta politica e sindacale nell’Italia del tempo, e come rivendicazione per il sindacato di un’autonomia politico-progettuale, l’«indipendenza» rispetto ai partiti, come la chiamava Di Vittorio . «Col Piano del lavoro - scriveva Vittorio Foa in Il cavallo e la torre - Di Vittorio tentò di spostare l’asse politico dallo scontro sociale immediato a una proposta di sviluppo valida per l’intero paese».
Ma fu la Cisl negli anni ’60 dopo grande battaglia anche interna, condotta dalla Fim, proprio per dare slancio e ruolo politico al sindacato, ad adottare l’incompatibilità tra cariche sindacali e cariche politiche (era il tempo dei sindacalisti parlamentari, consiglieri comunali e provinciali e perfino assessori, che con i doppi incarichi ponevano problemi di funzionalità dell’organizzazione e di autonomia, formale e sostanziale).
I rinnovi contrattuali dal 1963 al 1976 registrano bene l’evoluzione della politica contrattuale del sindacato dei metalmeccanici. Gli anni dell’autunno caldo sono quelli in cui si afferma un sindacalismo indipendente da partiti e istituzioni, ma non indifferente. Ancora dopo la dissoluzione del Pci e della Dc, negli anni Novanta, molti sindacalisti restano orfani del rapporto con il partito o con il governo amico. Dagli anni Sessanta agli anni Novanta si sperimenta una notevole autonomia dai partiti proprio per una fortissima capacità di essere come sindacato soggetto politico autonomo, propositivo e in campo su tutte le questioni. Questa forza nasceva dal solido radicamento nei luoghi di lavoro ma con forti collegamenti con il mondo della cultura, della ricerca, degli intellettuali d’avanguardia del tempo.
I Contratti nazionali del nuovo corso Sono i contratti dal 1963 al 1976 che edificano una nuova architettura di relazioni industriali moderne e che portano in fabbrica innovazioni che tutt’oggi esplicano i loro effetti positivi. Sono veri e propri contratti che anticipano le innovazioni legislative in tutti gli ambiti del lavoro, a partire dalla legge 300 del 1970, lo Statuto dei lavoratori. L’autunno caldo del sindacato fu una stagione lunga che durò fino al contratto del 1976. Un punto alto di potere, di consenso e di elaborazione.
Negli anni Settanta la contrattazione aziendale punta alla ricomposizione del lavoro, al diritto d’informazione e all’intervento sulle scelte dell’impresa (occupazione, investimenti, innovazione tecnologica, decentramento, interventi in favore del Mezzogiorno ecc.), al riconoscimento da parte delle imprese dei delegati e del loro potere di intervento nell’organizzazione del lavoro (tra gli altri: accordi Olivetti, Zanussi, Ignis, Indesit, Alfa Romeo, Fiat), si sviluppano le iniziative per il diritto allo studio (150 ore), che coinvolgono centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici.
Quello stesso sindacato rinnovato fu qualche anno dopo, pur fortemente esposto, ha saputo, anche per la sua credibilità, essere una fondamentale guida democratica dei lavoratori e un saldo presidio dello Stato democratico.
La Federazione dei lavoratori metalmeccanici La semina culturale, umana e politica degli anni ’60 consentì di entrare in campo alla Flm. Molto più che una federazione unitaria dei metalmeccanici. Era il 1973. La Flm esercitò negli anni Settanta una certa egemonia su tutto il movimento sindacale e fu anche in grado di incidere sugli equilibri politici. Nel dicembre 1977, contro il parere delle confederazioni e dello stesso Pci che appoggiava dall’esterno il governo), la Flm organizzò un’enorme manifestazione a Roma, che contribuì alla crisi del terzo governo Andreotti.
Con gli anni Ottanta, tuttavia, i rapporti unitari si fecero sempre più labili e la Flm entrò in crisi: nel 1983 le Fim-Fiom-Uilm firmarono il contratto nazionale, ma con motivazioni separate; nel febbraio 1984 si ebbe la rottura per il decreto sulla scala mobile (il cosiddetto “decreto di San Valentino”). La sigla Flm sopravvisse per qualche tempo, soprattutto a livello di attività internazionale. Ma, alla fine, la separazione si consumò e Fim, Fiom e Uilm si accontentarono di una semplice unità d’azione, non di rado infranta da rotture su questioni non marginali. La sigla resta a corso Trieste 36, a Roma, celebre quartier generale dei metalmeccanici italiani.
Di fronte a coloro che la liquidano come un’esperienza “ideologico-movimentista”, una maggiore freddezza e lucidità consente di valorizzare quella stagione come anni in cui l’unità aiutò a rinnovare il sindacato, nelle persone e nelle idee, e a fare qualche passo piccolo ma importante per de-ideologizzare il discorso pubblico sul lavoro.
La spinta che serve oggi a ripensare il nuovo ruolo del sindacato deve essere la stessa che mosse i giovani sindacalisti di allora. Per rinnovare profondamente il sindacato ci vogliono l’entusiasmo e la passione dei protagonisti dell’epoca. Per dare un senso all’impegno sindacale occorre avere una visione del futuro e capire quello che serve immediatamente. Bisogna studiare le nuove tecnologie per concepire nuovi sistemi di organizzazione che ridefiniscano tempi (e oggi anche spazi) di lavoro.
I giovani sindacalisti di allora seppero fare analisi sociale: chi erano i lavoratori, con quale scolarità, formazione, aspirazioni, desideri, bisogni sociali e identitari. Studiavano a fondo le tecnologie di produzione che portavano ad una organizzazione più evoluta del modello fordista con le prime robotizzazioni nel 1972 a Mirafiori e altrove e i nuovi sistemi di organizzazione del lavoro e di applicazione delle tecnologie fordiste.
Quei sindacalisti costruirono le loro piattaforme su queste analisi, e sui presupposti della cultura personalista comunitaria, spostarono le rivendicazioni sulla persona: non solo salario, ma anche formazione, inquadramento, salute, orari.
La fabbrica divenne un luogo di confronto, di iniziativa, di partecipazione. Era un grande momento di cambiamento, e il movimento sindacale ne era egemone sotto molti punti di vista, contrattuale, culturale, politico.
Dalla fabbrica fordista alla fabbrica intelligente Anche oggi siamo in un momento di snodo, a cavallo tra la terza e la quarta rivoluzione industriale. La grande trasformazione digitale del lavoro, delle produzioni, ma in fondo della vita, viaggia a un ritmo sostenuto. Industry 4.0, combinata alla tecnologia blockchain e all’intelligenza artificiale, si configura, in questo senso, come il secondo balzo in avanti dell’umanità.
Il primo balzo in avanti è avvenuto con la diffusione della macchina a vapore: questa invenzione e i suoi successivi miglioramenti consentirono il superamento dei limiti della potenza muscolare umana e animale. Oggi le tecnologie della quarta rivoluzione industriale ampliano e aumentano le capacità cognitive della nostra specie. Questo, rispetto alla produzione, darà vita a un mondo che non siamo in grado di immaginare compiutamente e che segna una discontinuità rispetto al passato. Un cambio di paradigma: produzioni, lavoro, nuovi ecosistemi cambieranno la vita di ciascuno; perciò la prima operazione da compiere è comprendere ciò che ci aspetta e capire che si tratta di una trasformazione più impegnativa di una semplice robotizzazione.
Il vecchio lavoro viene sostituito dal nuovo, tanto più e più rapidamente se il nuovo che arriva viene accolto in anticipo, preparando territorio, persone e aziende. È una sfida fondamentale per il sindacato, che non può permettersi di ignorare questi sviluppi, opponendosi a priori e non tenendone conto nell’immaginare l’evoluzione della propria rappresentanza. I big data, ad esempio, possono essere un formidabile strumento del sindacato nuovo.
Secondo alcuni le nuove tecnologie causano perdita di posti di lavoro, ma per dimostrare il contrario basterebbe ricordare l’esperienza del gruppo Fiat-Chrysler, che in seguito all’accordo di Pomigliano con un sindacato moderno e costruttivo ha investito nelle nuove tecnologie. Qui un buon mix tra innovazione e organizzazione del lavoro e competenze ha rilanciato un segmento di mercato e una fabbrica che stavano vivendo una profonda crisi.
Non bisogna perdere la carica innovativa che ha caratterizzato il sindacato industriale rinato negli anni Sessanta. Occorre tornare a studiare, a fare ricerca. Un progetto di cambiamento ha bisogno di idee nuove che poi devono essere consolidate in cultura organizzativa. Senza tanta formazione di qualità, il cambiamento è un’altra chiacchiera. Abbiamo per questo deciso che vi deve essere un “obbligo formativo”, dall’ultimo attivista che decide di impegnarsi al nostro fianco fino al segretario generale. Nessuno deve sentirsi “arrivato”.
Non riesco a capire come si possa fare senza le proprie scuole sindacali di cui Fim e Cisl dispongono da decenni, come faccia la politica senza una forte formazione diffusa. La formazione sindacale è il cuore e lo specchio di un sindacato veramente nuovo; quanta e quale se ne fa è lo specchio della salute di un’organizzazione, dimostra se sta veramente guardando al futuro o se è distratta da altro.
Oggi fare il sindacalista significa ascoltare, studiare, scegliere le priorità, accompagnate dalla capacità di fare proposte. Serve una libertà interiore per guardare avanti. Il sindacato di cui non si può fare a meno è un alleato che non difende l’esistente, ma spinge il paese a una svolta urgente in termini di produttività, competitività, ma anche di nuova sostenibilità sociale, civile, ambientale.
L’importante è non cullarsi nei rimpianti, non alimentare la cultura da bar della lagna, che nei social è diventata partito, e dei luoghi comuni che in Italia hanno già troppi campioni, e accettare invece la sfida del cambiamento anche quando farlo è faticoso. Bisogna uscire dal ricatto del breve termine, avere una visione integrale e radicale del cambiamento e ragionare dentro un progetto comune su come affrontare le sfide che abbiamo davanti. Viene agitato lo spettro di una devastante ondata di disoccupazione, che può essere arginata solo attraverso interventi che prevedano investimenti in tecnologia e in formazione. La forza disruptive delle nuove tecnologie cancella le vecchie mansioni, ma in un intervallo di tempo variabile ne genera di nuove.
Il sindacato degli anni sessanta aveva saputo analizzare, capire e ascoltare l’operaio fordista di terzo livello della grande fabbrica nonché le tecnologie e le organizzazioni del lavoro tipiche dell’organizzazione scientifica del lavoro. Ecco perché serve un sindacato moderno. La smart factory necessita di una smart union . Un sindacato “intelligente”, appunto, che studia, propone e orienta… e non annega nelle chiacchiere.
Dalle 150 ore al diritto soggettivo alla formazione Nella quarta rivoluzione, infatti, formazione e competenze rappresentano il “diritto al futuro”. Come metalmeccanici abbiamo dato un importante contributo in questo senso, inserendo il diritto soggettivo alla formazione nel nostro contratto: otto ore sono ancora poche, ma abbiamo aperto un varco culturale e di metodo, perché è proprio su questo fronte che si giocherà la partita del lavoro futuro. Ricongiungendoci a quella storica conquista che nel 1973 portò un milione di lavoratori a conseguire il diploma della scuola dell’obbligo.
Abitare il lavoro, serve una nuova cultura di liberazione nel lavoro e non da esso, serve una nuova capacità di accogliere, promuovere, proteggere e integrare le diversità, la complessità dei nuovi scenari del lavoro e delle produzioni. Ecco, lo spirito di frontiera, di svolta degli anni Sessanta sarebbe utilissimo ad affrontare queste formidabili sfide.