Scrittore, imprenditore, attivista. Condannato ingiustamente a morte venticinque anni fa. Per aver difeso il delta del Niger devastato dai pozzi di petrolio. Oggi l'esempio del nigeriano fautore della nonviolenza è più importante che mai

Schermata-2020-10-30-alle-15-22-34-png
Ken Saro-Wiwa: intellettuale post-coloniale, nigeriano, poeta e romanziere (“Sozaboy”, su tutti, in Italia edito da Baldini & Castoldi), drammaturgo, autore della sit-com di culto “Basi and Company”. Nel frattempo anche amministratore pubblico, imprenditore di successo. E attivista, senz’altro. Ambientalista, non violento. Per la tutela del popolo Ogoni e delle loro rivendicazioni contro lo sfruttamento del delta del Niger, dove tutt’ora l’aspettativa di vita è di circa 40 anni, da parte delle multinazionali degli idrocarburi.

Giustiziato, infine, il 10 novembre 1995, dopo un processo-farsa che ha sollevato l’indignazione globale. Solo dopo l’esecuzione, però. «Prima, il silenzio. Resta l’emblema di un’Africa che può farcela da sé, ma non ci riesce perché qualcuno le taglia le gambe di proposito», sottolinea Daniele Scaglione, ex presidente di Amnesty International fra il 1997 e il 2001.

Il poeta, infatti, era icona della difesa degli abitanti del delta del Niger dallo sfruttamento della Shell, là dove l’estrazione del petrolio ha causato una catastrofe ambientale. E - secondo Amnesty - proprio la compagnia anglo-olandese, nel 1994, aveva fatto pressioni sul governo della Nigeria (all’epoca retto da Sani Abacha) per «risolvere la questione Saro-Wiwa». Che chiedeva la fine delle devastazioni, oltre a una più equa distribuzione dei profitti nei confronti della poverissima popolazione locale. E che, sotto l’etichetta pacifica del Movimento per la Sopravvivenza del Popolo Ogoni, nel 1993 aveva portato in piazza 300mila manifestanti.

Continua Scaglione, rievocando la vicenda con L’Espresso: «Fu arrestato nel maggio dell’anno successivo e condannato. L’accusa, basata su due testimoni che poi hanno ritrattato per tempo, sostenendo di essere stati indotti a dichiarare il falso, era di aver istigato alla violenza i propri seguaci: una buffonata».

Era un uomo scomodo, di certo. E anche molto carismatico, amato dai nigeriani: un personaggio pop. Perché «nei romanzi parlava della violenza che subiva il suo popolo», ritenendo la letteratura un atto politico: «Uno scrittore deve essere coinvolto nel dare forma al presente e al futuro della società», diceva.

Ma non è stato solo il contenuto delle opere a ucciderlo. Anzi: «Insieme all’attività di imprenditore e autore tv, è servito a porre le basi della sua popolarità. Per il Paese era un volto famigliare. Poi la lotta alle multinazionali l’ha trasformato in pericoloso», puntualizza Pierpaolo Capovilla, autore (insieme a Il teatro degli orrori, band rock di Venezia di cui era voce) di “A sangue freddo” (2009), canzone incendiaria che lo definisce “un eroe dei nostri tempi” raccontandone la drammatica prigionia. «Non è il tetto che perde / non sono le zanzare».

Si cita la sua poesia più famosa,”La vera prigione”: che non è la galera, ma «le bugie che ti hanno martellato le orecchie per un’intera generazione». Denuncia il cantante: «La sua morte è responsabilità dell’Occidente capitalista».

Sul patibolo, Saro-Wiwa aveva assicurato: «La lotta continua». Venticinque anni dopo rimangono versi, romanzi, serie tv, un messaggio di ecologia, dei figli (Ken jr, Zina e Noo) che lo portano avanti. E la Shell nel 2009 ha patteggiato 11 milioni di euro di condanna, ma solo «per la riconciliazione». Del resto, in Africa lo sfruttamento continua, nel Niger e altrove. «Grazie a lui c’è più attenzione da parte delle grandi aziende verso le comunità locali», conclude Scaglione. «Ma fra greenwashing e surriscaldamento globale, i colpevoli sono ancora tali»
E la lotta, sì, continua.